giovedì 21 luglio 2016
La santità può essere scioccante quanto un insulto. Si pensi a Simone Weil. Se fosse vissuta in un monastero, se avesse deciso di fissare la sua esistenza nel circoscritto silenzio di un chiostro, qualunque esso fosse, probabilmente la sua testimonianza non sembrerebbe così incatalogabile e scandalosa come invece si sta rivelando sempre più. Noi guardiamo a questa ragazza di origini borghesi vestita da operaia o da brigatista della guerra spagnola, a questa originalissima intellettuale pronta a barattare l'accademia contro un'esperienza in fabbrica, a questa mistica che militava nel sindacalismo o a questa sindacalista che militava nella mistica (lei rese in effetti del tutto trascurabile l'ordine dei fattori) e non sappiamo bene cosa pensare. Ci riesce più facile etichettare appartenenze all'una o all'altra parte della barricata. Ma Simone visse come una senza fissa dimora del pensiero, avvicinandosi e prendendo le distanze, irriducibile nella ricerca della verità che, secondo lei, è la grande ragione per rimanere vivi. Non assomiglia a nessuno, non si lascia inscatolare in nessuna corrente o corporazione. Una simile, radicale individualità tanto ci disturba quanto ci illumina. Simone Weil irrompe in uno dei decenni più devastanti del secolo scorso, munita unicamente della sua intelligenza e di una terribile autenticità. Aveva scelto per sé due disposizioni di spirito alle quali cercò di essere fedele con un'ardente, creativa e inusuale intransigenza: primo, sentiva di dover adeguare ogni dettaglio della vita alla sua maniera di pensare, mostrandosi indisponibile a concessioni al pragmatismo o al cinismo ritenuti inevitabili; secondo, sapeva che l'esercizio del suo pensiero (leggasi: l'esercizio di sé stessa) la poneva di fronte a una rappresentazione della realtà di cui voleva incondizionatamente abbracciare le conseguenze, ipotecandole tutto. Visse letteralmente così, e fu questo a fare di lei un'anomalia, una sorta di bestemmia, uno scandalo che la contemporaneità non riesce ad attenuare. Albert Camus, che promosse l'edizione dei suoi scritti presso Gallimard, e che pubblicamente si rammaricava di non averla conosciuta, diceva che Simone era «l'unico grande spirito del nostro tempo». Ma lo diceva non come chi innalza una statua, bensì come chi pone una domanda. Nell'autobiografia spirituale che Simone Weil costruì pagina dopo pagina, anche quando pareva occuparsi unicamente di un problema impenetrabile di algebra o di filologia, spicca un concetto centrale: quello di sventura. È questo, secondo lei, il più umano e il più divino degli enigmi che noi possiamo vivere. Come ha scritto, la sventura è cosa completamente diversa dalla sofferenza. Essa prende possesso dell'anima e la marchia a fuoco con un ferro rovente che detiene in esclusiva. La sventura rende Dio momentaneamente assente, ma «più assente di un morto, più assente della luce in un sotterraneo completamente buio». In quelle ore, l'anima è percossa dall'orrore: la paura che l'assenza di Dio si faccia definitiva. È come se qualsiasi realtà degna di essere amata cessasse di esistere. È l'ora della grande prova. Ma occorre che l'anima continui ad amare o, per lo meno, che continui a voler amare nella solitudine, nell'incertezza e nel vuoto, ben sapendo che tale movimento implica la sua stessa distruzione. Soltanto così, però, ci sarà un giorno in cui inspiegabilmente Dio viene. Simone chiamava l'esperienza della sventura «una meraviglia della tecnica divina». Per lei si tratta dell'unico modo di accedere non solo alla fede ma anche all'amore e alla bellezza. La conoscenza che allora si produce in noi è un miracolo ben più grande che non camminare sulle acque.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI