sabato 9 marzo 2019
«Nuovo venuto che cerchi Roma in Roma/ E nulla di quella Roma in Roma scorgi,/ Questi vecchi palazzi, questi vecchi archi che vedi/ E queste vecchie mura, ecco ciò che ha nome Roma./ Vedi che orgoglio, che rovina: e come/ Quella che sottomise il mondo alle sue leggi,/ Per domare tutti, un giorno domò se stessa,/ E divenne preda del tempo, che consuma ogni cosa». La scelta, ora, di questi versi del poeta del sedicesimo secolo Du Bellay potrebbe essere equivocata: non mi riferisco assolutamente all'attualissima situazione del degrado di Roma, che mi fa soffrire come fa soffrire tantissimi altri, romani o come me (e Goethe, e Byron, e Audrey Hepburn...), innamorati di Roma, cioè di Bellezza e senso dell'Eterno. Non c'entra qui la cronaca di questi duri tempi della città. No, qui è al centro del pensiero del poeta il senso stesso della bellezza e della gloria edificata dall'uomo, che splendono nei suoi monumenti. Ma questi stessi monumenti sono sottoposti all'azione devastante del tempo, a quello che Shakespeare definisce "il triste divenire". Anche Roma, non quella di oggi, quella del sedicesimo secolo, decade rispetto al suo modello. Solo permane, identico, prosegue il poeta, il fiume, il Tevere: ciò che scorre. Vero, tutto scorre e muta. Ma, aggiungo, Roma è anche memoria. Tutto si salva se è memoria.
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