sabato 27 gennaio 2018
Sono più di vent'anni che vado nelle scuole a parlare della Shoah. Cominciai nel 1997, dopo aver pubblicato Campo del sangue, un diario di viaggio da Venezia ad Auschwitz e credo di non aver mai smesso.
Avrò visto migliaia di alunni, compresi quelli delle mie classi, in tutta Italia e all'estero, specie in Francia e Germania. Ogni volta racconto la storia di mia madre che il 2 agosto del 1944, a soli diciassette anni, fuggì dal treno della deportazione alla stazione di Udine dopo che mio nonno era stato fucilato dai nazisti. Non era ebrea, non venne quindi posta sui vagoni piombati. Scese dal convoglio chiedendo alla SS che la sorvegliava il permesso di andare alla fontanella a prendere un po' d'acqua. Così riuscì a sfuggire in mezzo alla folla. Nel tempo per me è diventato una specie di refrain. Batto sempre sullo stesso chiodo. Gli adolescenti mi fissano attenti. Sento che devo farlo perché fra pochi anni non avremo più i testimoni del massacro e il loro testimone dovrà essere raccolto da quelli che, come me, sono venuti dopo. La differenza è che loro avevano la legittimità per dire certe cose. Noi ce la dobbiamo meritare. Come? In due modi: studiando le fonti, senza parlare a vanvera. E visitando i luoghi in cui avvenne l'eccidio di milioni di persone. Questi posti devono diventare sacri.
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