giovedì 16 febbraio 2017
Il revisionismo, questo mostro a due facce che reinterpreta la Storia, ha colpito anche lui. Dopo la sua morte, avvenuta 10 anni fa, sul grande saggista e reporter Ryszard Kapuscinski è scesa l'ombra di un passato legato al regime comunista polacco. Poi altre accuse. Come quella di non essere trasparente rispetto alla sua visione della vita, alla sua posizione verso il comunismo o il cristianesimo. Critiche provenienti da alcuni ambienti conservatori polacchi.
Eppure, come ha rivelato Adam Michnik, noto dissidente ai tempi di Solidarnosc, in diverse occasioni lo scrittore raccontò di aver perduto la fiducia nel marxismo dopo i fatti di Budapest del '56 («anche se sono sempre rimasto dalla parte dei falliti della Storia», precisò). E proprio ai tempi delle proteste di Danzica sostenne il sindacato di Walesa, tanto che il regime di Jaruzelski gli tolse l'accredito come giornalista. Quanto alla sua fede, è vero che egli non la esibì mai, ma ai suoi funerali, celebrati a Varsavia dal cardinale Glemp, durante l'omelia padre Adam Boniecki disse: «Era certamente un cattolico praticante che però non amava l'ostentazione della sua fede; era profondamente cristiano ed era legatissimo a Wojtyla». E ricordò che ogni volta che Kapuscinski giungeva in un nuovo posto in Africa, la gente gli chiedeva subito, come prima cosa, se credesse in Dio. «E lui rispondeva di sì, spiegando che era quasi costretto a dare conto della sua fede a quelle popolazioni».
Al di là di queste diatribe, la sua onestà intellettuale è dimostrata da come ha raccontato i poveri del Terzo Mondo, a partire da una concezione della Storia che nasceva dalla sua amicizia col teologo Josef Tischner (assai legato a Giovanni Paolo II), «forse l'unico pensatore polacco che abbia sviluppato in modo tanto approfondito la problematica dell'altro». E dalla sua rilettura delle opere di Lévinas, il filosofo che più di tutti nel 900 ha proclamato l'etica dei volti. Ma per capire la visione del mondo di Kapuscinski, è opportuno rileggere il suo In viaggio con Erodoto (Feltrinelli, 2005), in cui il giornalista descrive il suo innamoramento dei popoli lontani proprio a partire dal grande storico. Che lui aveva incontrato dapprima all'università di Varsavia ascoltando le lezioni di storia greca e poi, per una strana coincidenza, in occasione del suo primo viaggio all'estero, precisamente in India. Inviato dal giornale Sztandar Mlodych in cui lavorava da un anno, prima di partire si vide regalare dalla caporedattrice proprio le Storie. Che Kapuscinski cominciò a leggere a poco a poco a Nuova Delhi.
Il libro di Erodoto è «il primo grande reportage della letteratura mondiale». Nel desiderio di narrare le imprese degli uomini del tempo, lo storico greco è ossessionato dalla memoria e capisce che affinché «le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari non rimangano senza gloria» deve iniziare a raccogliere testimonianze, ad ascoltare l'uomo, a mettersi in cammino, ad annotare scrupolosamente. Erodoto insomma per Kapuscinski è «un visionario del mondo, un creatore capace di pensare su scala planetaria: in una parola, il primo globalista della storia». Ed è il primo a rendersi conto che la caratteristica fondamentale del mondo è la sua molteplicità: «Tutta la sua opera sembra dire ai Greci: "Non siamo soli"».
Lo storico di Alicarnasso vuole anche capire da dove nasce il primo vero scontro di civiltà della storia, quello fra i Greci e i Persiani. Così facendo, finisce con il descrivere interi popoli con lo sguardo dell'antropologo, dall'India all'Africa, sempre cercando di sottolineare la bellezza della diversità. Ma anche sapendo che «in questo corteo di civiltà l'Europa costituisce un'eccezione: è l'unica , a partire dall'antica Grecia, a manifestare una curiosità per il mondo».
Così come Erodoto, Kapuscinski è riuscito a raccontare nei suoi numerosi libri il volto dell'altro, del diverso da noi. Soprattutto di coloro che non hanno voce, denunciando anche i pericoli che corre l'informazione al tempo di internet: i media – diceva spesso – sono ormai diventati strumenti di svago e di cinismo, ci esortano più a dimenticare il mondo che a conoscerlo.
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