martedì 4 maggio 2021
«Quivi è la rosa in che 'l verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino (...) E come fantolin che 'nver' la mamma tende le braccia, poi che 'l latte prese, per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma; ciascun di quei candori in sù si stese con la sua cima, sì che l'alto affetto ch'elli avieno a Maria mi fu palese. Indi rimaser lì nel mio cospetto, 'Regina celi' cantando sì dolce, che mai da me non si partì 'l diletto. Oh quanta è l'ubertà che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro a seminar qua giù buone bobolce!» (Par XXIII, 73-75; 121-132). Nelle braccia dei santi che si levano verso la tenera Madre che li ha appena nutriti di un latte di candore e di fiamma, chiunque può ritrovare l'anelito delle proprie braccia bambine. Nel cantar sì dolce del "Regina celi" di Dante che, insieme alla teoria degli altri Canti, in questo tempo commemorativo del Sommo Poeta, han recitato in Tivù Roberto Benigni, Lucilla Giagnoni e molti altri straordinari interpreti, il calore di una maternità fuor di retorica. Rosa di carne, volto di diletto, terra feconda dove odorano i gigli, seminagione ubertosa che colma campi ed arche riempie.
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