sabato 17 novembre 2018
Mio fratello era di dieci anni più grande di me. Nei miei primi ricordi è già altissimo. Da piccola, per parlargli mi pareva di dover gridare, tanto mi sembrava lontano, lassù dal suo metro e novanta. Gli stavo sempre attorno, petulante, e lui si divertiva a farmi arrabbiare. Io avrei voluto picchiarlo, ma, impotente, non arrivavo alla sua cintura.
A diciott'anni era un campione di salto in alto, un ciclista che s'arrampicava fino al Passo Falzarego con la sua Legnano. Lo guardavo con venerazione: era forte, era invincibile, il mio fratello grande.
Diventò un cardiologo. Però fumava: due pacchetti senza filtro al giorno. Non era vecchio ancora, quando una radiografia affermò una diagnosi senza scampo. Corsi a trovarlo. Era già un altro, scavato il viso, smagrite le braccia forti. Respirava con l'ossigeno: lui, che scalava il Falzarego a pedalate vigorose. Vedendolo così, mi si incrinò qualcosa dentro: sentii netto dentro di me come il rumore di un vetro, che andava in frantumi. Il mio fratello grande, il mio eroe. E il respiro, mio Dio, il respiro degli ultimi giorni, quel penoso rauco attaccarsi alla vita.
Ci sono notti che non finiscono mai. Sentire che quell'agonia incenerisce anche te. È quando si vede morire un fratello con cui, bambina, hai giocato, che davvero si comincia a invecchiare.
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