mercoledì 8 aprile 2020
Mi sono appena affacciata alla finestra, ieri, alle quattro del pomeriggio. Faceva, per la prima volta, quasi caldo. Per strada rari milanesi con la mascherina sul volto, lo sguardo a terra. E davanti agli occhi una luminosa, spudorata giornata di primavera. Di quelle in cui le giacche e le sciarpe di colpo paiono così pesanti, e fastidiose. E si immagina di andare, il sabato, in Liguria: con in mente quel punto dell'autostrada dei Fiori in cui a una curva, improvvisa, ti si staglia di fronte la linea blu del mare. Oppure in questa stagione bello sarebbe andare in montagna, dove la neve comincia a sciogliersi, e spuntano i bucaneve; e dai tetti l'ultimo ghiaccio si scioglie al sole, gocciolando, acqua finalmente libera, acqua bambina che corre via nei rigagnoli.
Si potrebbe andare perfino, soltanto ai Giardini di via Palestro, dove nei laghetti a aprile le oche si portano dietro i piccoli in fila. Ma anche i Giardini quest'anno sono chiusi. Inaccessibili, il mare e le montagne.
La mia generazione, e tutte quelle più giovani, in Italia non hanno mai sperimentato la costrizione, il non poter partire e ritornare. Ne siamo ancora sbalorditi, mentre al mattino compiliamo l'autocertificazione. Possibile, mi domando, che fosse normale andare ovunque, salire su un treno o su un aereo, e che non ci rendessimo conto di quale bene godevamo?
Questa Quaresima diversa ci fa sperimentare la rinuncia a cose grandi: libertà, salute, sicurezza, forse anche lavoro. Aspramente, nel 2020 qualcosa viene insegnato al Primo Mondo, quello dei fortunati. Con ansia speriamo che l'incubo finisca, e cosa daremmo, perché la vita tornasse come prima? Semplicemente, come prima. Quando avevamo tutto, o almeno molto, e non lo sapevamo.
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