Può ancora esistere la parola “umano”?
venerdì 12 marzo 2021
Penso da tempo che gli intellettuali socialmente più utili e necessari siano i medici e gli insegnanti. Ora che, in situazione di emergenza, ci auguriamo tutti che la nostra socialità ne esca rinnovata e ridefinita proprio nella lotta per la salute e nella valorizzazione dei rapporti pedagogici, è ancora più chiara l'importanza del sistema sanitario e di quello scolastico. I sentimenti sociali e comunitari hanno bisogno di una consapevolezza intensificata che sappia correggere certi automatismi deleteri della massificazione e burocratizzazione della vita. A partire dalla quotidianità per arrivare alla politica internazionale e al dialogo interreligioso, i problemi sono gli stessi e il rimedio è uno: comprensione, collaborazione, tolleranza. Vale nella pandemia, nella geopolitica, nelle crisi economico-sociali e anche in quelle ambientali. Ci sarà sempre più bisogno di bravi insegnanti e di bravi infermieri e medici. In un'epoca definita Antropocene (èra in cui nel pianeta domina l'uomo) i rapporti di comprensione fra le generazioni, le nazioni, i sessi, le culture e le fedi hanno bisogno di una cura e attenzione senza precedenti. I pregiudizi razziali e i privilegi sociali sono più intollerabili e più pericolosi che mai. Non si può parlare di cultura, scienza, arte, morale e democrazia a chi manca di acqua, cibo e lavoro. Il mondo umano sta sempre più minacciando sé stesso a causa di quello che Kafka definì il nostro “sonnambulismo”, più diffuso, perché inconsapevole, della stessa malvagità, in quanto ci fa chiudere gli occhi sul mondo e sul modo in cui viviamo. Un filosofo a lungo trascurato e tuttora sottovalutato, Gunther Anders (1902-92), ha avuto il merito di mettere al centro della sua opera più esauriente, L'uomo è antiquato, un tema la cui attualità è ormai impensabile che si esaurisca. La tesi di Anders è tanto provocatoria quanto realistica: “Mentre gli utopisti non riescono a produrre ciò che immaginano, noi non siamo capaci di immaginare ciò che produciamo”. È ciò che produciamo a renderci antiquati. Abbiamo creato un mondo che si autoriproduce per una specie di determinismo tecnico che alimenta sé stesso e in cui ogni nuova innovazione tecnologica è dedotta di fatto dalla precedente, senza possibilità di scelta, senza che il processo innovativo possa essere orientato in base a giudizi di valore. Lo sviluppo tecnologico risulta di per sé convincente, perché rischia di produrre, o già ora produce, non solo strumenti ma anche i valori e i bisogni che li fanno apparire necessari, oltre che desiderabili. Se questo è vero e sarà vero, parlare senza ipocrisia di umanesimo e di libertà di coscienza sarà sempre più difficile.
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