mercoledì 24 luglio 2013
Quale traccia è più forte, più persistente a chi la scorge delle pietre d'inciampo, quei sampietrini d'ottone chiamati pietre d'inciampo che a Roma e in molte città tedesche segnalano al passante che da quella soglia è passato, settant'anni fa, un ebreo deportato? Nessuna memoria, nessuno scritto è più duro di quella traccia che sembra ammonirci e accusarci di indifferenza, di oblio, forse anche di complicità. Su quelle pietre, solo il nome, le date di nascita e di morte, quelle della deportazione. Ma quanta realtà dietro quelle pietre. Questo era un bambino, aveva appena sei anni, cerchiamo di immaginarcelo, già sappiamo che non può esser sopravvissuto all'arrivo ad Auschwitz. E questa era una donna carica di anni, forse camminava male e nell'oltrepassare la soglia è inciampata, chissà. La pietre sono come un pugno nello stomaco, ti impongono la memoria. Anche se non pensi a guardarle il luccicare dell'ottone attira la vista e apre all'immagine di quel che è stato. L'architetto tedesco che le ha create ha avuto un vero e proprio lampo di genio nell'ancorare il nome dei morti a luoghi dell'oggi, percorsi da persone con il loro bagaglio di quotidianità, la borsa della spesa, il cane al guinzaglio, il bambino in passeggino. La vita illumina la morte più di ogni parola.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: