martedì 11 maggio 2004
Conosco quelle piccole frasi che hanno l'aria di niente e che, una volta accettate, vi possono appestare tutta una lingua.
Malone è un vecchio costretto a letto in attesa della morte. Per ingannare il tempo, decide di comporre «quattro storie, ognuna su un tema diverso». Inizia così il romanzo Malone muore che il drammaturgo Samuel Beckett pubblicò nel 1951. Il testo sarà un continuo intersecarsi tra realtà e sogno, tra vita e fantasia. Ho segnato questa osservazione perché mi sembra che ben s'adatti a un'esperienza dei nostri giorni. Ci sono, infatti, frasi ripetute che hanno appestato la nostra lingua quotidiana. Sono parole volgari o banali: certo, hanno perso la loro carica scandalosa, ma hanno inquinato il linguaggio rendendolo sguaiato, hanno reso rozze e grossolane le nostre relazioni, ci hanno fatto tutti un po' più maleducati e impazienti. Ma c'è un altro aspetto che vorremmo mettere in luce. Alcune piccole frasi, uscite di bocca in modo inavvertito, hanno centrato un bersaglio sensibile, hanno cioè colpito una persona ferendola. E' inutile cercare il rimedio con imbarazzate scuse; ormai il danno è fatto, perché una parola detta non muore, anzi proprio in quel momento comincia a camminare e a vivere, seminando in quel caso odio e risentimento. E allora, anche di fronte alle piccole frasi, ricordiamo il proposito dell'antico Salmista: «Veglierò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua, porrò un freno alla mia bocca» (39, 2). Un proposito sempre arduo - come diceva Metastasio - «voce dal sen fuggita, poi richiamar non vale"».
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