martedì 4 gennaio 2005
Un giorno della mia vita, passando per una strada di Buenos Aires ho visto una scritta su un muro. Vernice colorata su una superficie senz"anima. Quattro parole: «Patricio, te amo. Papá». Non mi era mai capitato, in quasi cinquant"anni, di vedere un graffito dedicato da un padre a un figlio.Piace anche a me, quando cammino per le strade di Milano, catturare un frammento dei dialoghi delle persone e da quella frase sospesa immaginare una storia che sia sottesa. Ha fatto così Walter Veltroni col suo libro Senza Patricio (Rizzoli), pubblicato qualche mese fa: egli è partito da una curiosa scritta murale nella quale un padre dichiarava il suo amore per il figlio Patricio, scritta tracciata su un muro di Buenos Aires. Il sindaco di Roma ha immaginato così cinque storie che potessero spiegare quella dichiarazione (le prime due sono bellissime ed emozionanti).Non è nostro compito parlarne, anche se la suggestione che quelle pagine offrono è molto forte, sia pure aggrappandosi al "forse" con cui tutti i racconti necessariamente iniziano. Vorrei soltanto sottolineare un aspetto che vale per tutte le relazioni umane, ossia la necessità di superare più spesso l"implicito. Quante volte lasciamo nel cuore sentimenti inespressi, quante volte fermiamo un gesto di tenerezza e blocchiamo in gola una parola dolce e sincera. Forse il pudore, oppure il sospetto di eccedere e di essere mal compresi, o ancora il rimando a un"altra occasione fanno sì che spegniamo in noi tanti doni che potrebbero rendere più vivo, fresco, gioioso il nostro legame con chi ci sta accanto. E così, può accadere che, dopo la morte della persona cara o quando si è consumato il distacco, si rimpiange di aver taciuto, di aver negato quella piccola gioia all"altro, di non avergli confessato quanto era importante per noi.
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