mercoledì 9 agosto 2006
Gli uomini dovrebbero usare parole comuni per esprimere concetti poco comuni. E invece fanno il contrario. Vado a ripescare nella memoria questa frase del filosofo tedesco dell'Ottocento Arthur Schopenhauer, mentre spazientito lascio perdere l'articolo di un teologo che, almeno alla mia mente, risulta invalicabile. Un linguaggio criptico, esoterico, sofisticato che mi sembra mirare a farmi sentire - e forse questa è un'opera benefica di umiltà - un po' rimbambito. Ma quella frase dei Parerga e Paralipomeni (tuttavia anche Schopenhauer, almeno nel titolo della sua opera, non scherzava in oscurità iniziatica") è troppo sacrosanta per non confermare il mio abbandono rassegnato di quelle pagine. La riflessione che vorrei proporre riguarda, però, l'uso delle parole comuni. Sappiamo, purtroppo, che il linguaggio in questi ultimi anni si è di molto deteriorato. Da un lato, c'è la corruzione della parola con l'uso della terminologia volgare e aggressiva, con l'urlato, la chiacchiera e la riduzione del vocabolario a pochi e scontati termini. D'altro lato, c'è il linguaggio allusivo e scarnificato dei messaggini telefonici o dell'informatica. Si configura, così, una comunicazione semplificata che ha perso il sapore e il colore del discorso comune, il quale ha bisogno di inflessioni, di pause, di una scelta di parole, di contenuti articolati. Come il teologo che si bea della sua indecifrabilità e inaccessibilità, così anche il ragazzo che parla per singulti e segni procedono verso una forma di "autismo" spirituale e, alla fine, di solitudine, altezzosa la prima, vuota la seconda. Fermo restando, comunque, che vale sempre quello che ripeteva un mio vecchio amico: «Se non avete nulla da dire, non dite nulla!».
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