martedì 27 febbraio 2007
Ci sono persone che parlano un momento prima di pensare. Quelli della mia età (o poco prima o poco dopo) ricordano a memoria alcuni versi un po' da filastrocca: «Voce dal sen fuggita poi richiamar non vale:/ non si trattien lo strale, quando dall'arco uscì». Non tutti, però, sanno che essi appartengono a uno dei tanti melodrammi del poeta settecentesco romano Pietro Metastasio, la non memorabile Ipermestra, che ha per protagonista una delle 50 figlie del mitico re Danao. Sta di fatto che meglio non si potrebbe rappresentare la iattura del parlare senza ponderare: una volta uscita dalle labbra, la parola cattiva o impudente si spegne foneticamente ma inizia allora a vivere creando danni talora irreparabili. Dobbiamo tuttavia riconoscere che ad affermare lo stesso concetto in modo ancor più icastico è stato un secolo prima Jean La Bruyère nei suoi celebri Caratteri a cui abbiamo oggi attinto (e non è la prima volta). Questo autore moralista francese segnala un vizio piuttosto diffuso, quello dell'invertire l'ordine tra il pensare e il parlare. Infatti dovrebbe essere tale la disposizione da seguire: prima riflettere ed elaborare un pensiero, un giudizio, una critica e poi formularla in parole. In realtà molto spesso avviene il contrario. Dal cervello scollegato non esce nessun comando o impulso, la bocca invece se ne va per suo conto, fluendo ora in una chiacchiera vacua, ora in un'ingiuria o in un'offesa generata solo dalla passione collerica o dalla pura e semplice stizza o irritazione. Il tempo di quaresima, in cui siamo ormai entrati, potrebbe essere l'occasione per un esercizio un po' faticoso ma necessario, l'ascesi della parola, memori di una battuta del grande Leonardo: «Chi poco pensa, molto erra».
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