sabato 12 marzo 2022
Ci sono parole che non si possono pronunciare, e per esprimere le quali si inventano forme o locuzioni più "morbide", che non urtino la sensibilità delle persone, che nascondano, almeno un po', la realtà. Un esempio per tutti è l'ipocrisia con cui si parla dell'aborto, o meglio della "interruzione volontaria della gravidanza", che provoca non la morte di un feto, ma di un "prodotto del concepimento". Soprattutto quando c'è di mezzo la vita delle persone, fateci caso, si cercano sempre giri di parole per dire la stessa cosa in un modo più soffice. È così per l'aborto, l'eutanasia, la riproduzione assistita. Da più di due settimane c'è un'altra parola che non si pronuncia più, "guerra". E se per la Russia è una questione di propaganda, per cui il divieto è esteso a tutti, notiziari, giornali e semplici cittadini – e hanno fatto impressione gli equilibrismi del Patriarca Kirill per appoggiare l'attacco all'Ucraina, senza però dirlo – anche all'Ovest, dove per noi gente comune quella che si sta combattendo è guerra, i governanti stentano a usarla. Prudenza, perché "guerra" è una parola terribile da pronunciare, o tatticismo che sia, sta di fatto che non si dice. Non per caso Francesco l'ha detto a chiare lettere, domenica scorsa: «In Ucraina scorrono fiumi di sangue e di lacrime. Non si tratta solo di un'operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria».
È sempre stato così. Senza andare troppo indietro nel tempo, nel 1982 Giovanni Paolo II, in procinto di andare in visita in Gran Bretagna mentre la flotta britannica era già in rotta verso le isole Falkland occupate dagli argentini che ne rivendicavano il possesso, volle aggiungere all'ultimo minuto una tappa a Buenos Aires per ribadire a entrambi i contendenti il suo invito alla pace. E nel 1991, cinque giorni prima della scoppio della prima guerra del Golfo, nel discorso di inizio anno al corpo diplomatico presso la Santa Sede, disse che «le esigenze di umanità ci chiedono di andare risolutamente verso l'assoluta proscrizione alla guerra e di coltivare la pace come bene supremo».
Era il culmine di oltre cinquanta appelli, tutti caduti nel vuoto. E tali sarebbero rimasti anche quelli contro la guerra nei Balcani tra il 1991 e il 1995, il Kosovo nel 1999, l'Afghanistan nel 2001, e ancora l'Iraq nel 2003. Rimase sempre isolato, bollato come uno "fuori dalla realtà", come un inguaribile irenista. Non lo era, e si prodigò in tutti i modi possibili per la pace, e di fronte alle pulizie etniche nei Balcani arrivò anche a definire la dottrina dell'"ingerenza umanitaria", ossia il dovere di intervenire a protezione dei civili. Restò sempre inascoltato.
Lo stesso sta facendo Francesco, che da prima dell'inizio della guerra si sta prodigando in tutti i modi per la pace. E anche lui ha assicurato che «la Santa Sede è disposta a fare di tutto, a mettersi al servizio per questa pace». E proprio in questi giorni, ha aggiunto, «sono andati in Ucraina due Cardinali, per servire il popolo, per aiutare. Il cardinale Krajewski, Elemosiniere, per portare gli aiuti ai bisognosi, e il cardinale Czerny, Prefetto ad interim del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Questa presenza dei due cardinali lì è la presenza non solo del Papa, ma di tutto il popolo cristiano che vuole avvicinarsi e dire: "La guerra è una pazzia! Fermatevi, per favore! Guardate questa crudeltà!"». In questo popolo ci siamo anche noi. Senza mai dimenticare che in quel fiume di sangue c'è anche quello dei soldati russi.
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