Non eredi di Zanzotto e Giudici, ma molti poeti «narrativi» o «teatrali»
sabato 10 dicembre 2011
Le reazioni suscitate dalla frase con cui concludevo la mia rubrica della settimana scorsa mi hanno sorpreso. La mia era un'affermazione piuttosto neutra: dicevo che Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto non hanno avuto eredi sul piano tecnico, per il loro virtuosismo e la loro inquietudine sperimentale (il che non vuol dire che siano solo pregi, in alcuni casi sono stati dei difetti).
Quindi nessuna affermazione apocalittica sulla «morte della poesia», né cancellazione di tutti i poeti (forse troppi) oggi in attività. Zanzotto e Giudici, è vero, appartengono a un'altra storia, che non ha più molti rapporti con la tematica e il linguaggio degli autori venuti dopo. Zanzotto ha sempre sentito di avere alle spalle una lunga tradizione, da lui stesso valorizzata e analizzata: Virgilio bucolico, Petrarca, Hölderlin, Leopardi, Ungaretti, Eluard, eccetera. A sua volta Giudici aveva una sua tradizione piuttosto antilirica, tendenzialmente narrativa, che ha voluto rendere compiutamente esplicita traducendo l'Onieghin di Puškin.
Dopo di loro le cose sono cambiate. Non essere eredi di Zanzotto e Giudici non significa non essere poeti. Né è obbligatorio fare altrettanti esperimenti metrici e linguistici. Penna, Sereni, Caproni, Amelia Rosselli, per fare solo qualche esempio, non sono certo inferiori per il fatto di avere usato una gamma stilistica meno varia o addirittura provocatoriamente limitata e iterativa.
Ho sempre pensato che alcune delle novità più evidenti nella nuova poesia italiana vadano verso un ampliamento della narratività e della teatralità: penso per esempio a Bianca Tarozzi, Patrizia Valduga, Alba Donati, Anna Maria Carpi, Patrizia Cavalli. Oltre al ritorno della tecnica del verso classico, che in precedenza sembrava quasi estinta, forse uno scambio maggiore fra poesia e prosa c'è stato. La superstizione dell'oscurità, che dall'ermetismo era passata alla neoavanguardia contagiando molti giovani poeti indecisi sul da farsi, è ormai una superstizione superata.
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