
«Il cuore dei saggi è in una casa in lutto e il cuore degli stolti in una casa in festa», ci dice l’Ecclesiaste (Qo 7,4), probabilmente per metterci di buon umore…Gesù la dice più grossa, facendo delle lacrime addirittura una porta della felicità: «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati» (Mt 5,4). Spinge forse un po’ troppo in là il gusto del paradosso: si può biasimare una gioia troppo rumorosa, troppo chiassosa, troppo superficiale per essere vera, ma… arrivare a proclamare beati quelli che piangono? Le lacrime esprimono precisamente il dolore e la sofferenza – il contrario della felicità. Sarà questo un modo un po’ brutale di dirci che della felicità noi non capiamo niente?
Eppure, piangere non è solo soffrire; è anche rendere la propria sofferenza visibile, conoscibile, accessibile agli altri. È mostrarsi vulnerabili, e questo non ci piace molto: è spesso da altre persone che, direttamente o indirettamente, viene la nostra pena o il nostro dolore, e non amiamo farglielo vedere. Ma piangere è anche mostrarsi disponibili alla consolazione: dagli altri non ci viene solo il dolore, ma anche quelle consolazioni e incoraggiamenti che sembrano così insignificanti quando siamo noi a dispensarli e così preziosi quando li riceviamo. Piangere significa credere che può arrivare una consolazione. Piangere significa avere fiducia.
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