domenica 9 luglio 2017
Una verità profonda è venuta incontro a me da un errore di traduzione – qualcosa che si chiama in linguistica un “falso amico” – nell'enciclica Laudato si'. Il falso amico ha lasciato passare lo Spirito Santo (certo, se lo Spirito Santo si facesse fermare dai falsi amici, la Chiesa sarebbe scomparsa da tanto tempo). A due riprese il Santo Padre parla di “aborigeni”. Al paragrafo 146: «È indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori […]. Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano». Poi, al paragrafo 179: «Questi valori [di responsabilità, di senso comunitario, di profondo amore per la propria terra] hanno radici molto profonde nelle popolazioni aborigene». Quale posto è accordato ai popoli primitivi dell'Australia! Mi dicevo. Ma sbagliavo. La parola “aborigeni”, in spagnolo come in latino (ab origines, quelli che stanno lì fin dalle origini) vuol dire “indigeni” ovvero “autoctoni” in senso generale. Anche se questo senso esiste ancora, in francese e in italiano la parola rimanda oramai soltanto agli indigeni dell'Australia… Ecco perché mi sono interessato specialmente a quegli aborigeni, invece di volgermi verso i sardi o gli alverniati, come una lettura più esatta del testo mi avrebbe forse spinto a fare… C'è dunque la loro famosa pittura su pietra, corteccia o tessuto che tanto somiglia a allucinazioni da Lsd, ma che forma in verità una cartografia più rigorosa quella di un istituto geografico... E tuttavia è ai loro canti che mi sono fermato. O piuttosto ai loro “itinerari cantati” che sono anche una specie di cartografia o, per meglio dire, una “cartofonia”. Stabilire una mappa – per lo meno mentale – è un atto originario e decisivo. Ne ho la prova ogni giorno quando mia moglie mi chiede dove ho messo le chiavi dell'automobile, o quando mi alzo la notte per andare al gabinetto. Oggi affidiamo i nostri itinerari a un Gps. Questi oggetti sono ancora molto poco performanti per dirci il tragitto dalla camera da letto ai servizi. Quanto a darci l'Itinerarium mentis in Deum, ne hanno di strada da fare prima di giungere al livello che si aveva al XIII secolo. Ho digitato «Deus» sul mio Gps: mi ha guidato fino a un venditore di moto a Milano, sotto l'insegna “Deus ex machina”. Ho digitato «W.C.»; mi è stato indicato un luogo lontano 9.012 chilometri, nella Provincia del Capo Occidentale in Sudafrica. Temo di non poter resistere così a lungo. I songlines degli aborigeni sono ben più efficaci. Hanno al tempo stesso qualcosa dell'itinerario dello spirito in Dio e della strada che conduce alla porta del vicino. Gli aborigeni non hanno il catasto. I loro titoli di proprietà stanno nei canti ereditati dai loro antenati. Ciascuno di questi canti corrisponde a un itinerario che delimita un territorio: descrive tutto ciò che si può vedere. Al ritmo di una marcia. La stessa strada percorsa in Lamborghini non lascerebbe il tempo per una descrizione lirica. La poesia è intimamente legata ai nostri piedi. Già una bici va troppo in fretta per la poesia, che deve cedere il posto a una segnaletica. Negli itinerari cantati, la descrizione non è un semplice inventario di oggetti. Queste rocce alla vostra sinistra sono le uova del Serpente Arcobaleno; quel grosso blocco di gres rossastro alla vostra destra è il fegato del Canguro trapassato da una freccia; quell'albero è uscito del sogno del Bruco; il fiume è sgorgato delle lacrime dell'Emù; quella grotta è il buco della Formica del miele – sapendo che al Tempo immemoriale del Sogno, il Serpente, il Canguro, il Bruco, l'Emù e la Formica erano antenati della tribù e potevano dare lezioni di saggezza meglio di molti arcivescovi. Bisogna poter narrare l'avventura che condusse a questa metamorfosi: «Cantare il paesaggio, lo fa venire più rapidamente», diceva un aborigeno a un topografo russo le cui localizzazioni avevano come scopo l'installazione di una linea ferroviaria. E così, da quando il treno si è messo a passare in quei luoghi, il paesaggio si allontana. Impossibile cantarlo. Scorre via come la pioggia sui finestrini. Il nipote dell'aborigeno, seduto su un sedile dell'Indian Pacific, ha le orecchie tappate da cuffiette che gli parlano di nessun luogo – o di una discoteca. Il mito è molto più preciso della mappa 1:10.000. Non solo sposa il passo dell'uomo ma gli dà un senso. Sapere che il fiume dove rinfrescarsi proviene da un emù malinconico – la sua femmina era stata divorata da una fiera nel suo primo atto carnivoro – misura il flusso dell'acqua sul flusso della parola e gli concede una profondità umana. Ovidio permetteva qualcosa di analogo: dietro la fontana o l'alloro si nascondevano le ninfe che erano sfuggite a un tentativo di stupro di un dio. La foglia di alloro che mettiamo nel ragù aveva allora un sapore speciale e permetteva, intorno al tavolo, di raccontare storie ai bambini o di constatare coi vecchi che Apollo oggi sarebbe in prigione. I pellegrini che vanno in Terra Santa somigliano agli aborigeni dell'Australia. Le cose in mezzo alle quali camminano, rimandano agli episodi della vita, non del loro antenato Canguro, ma di Cristo. I luoghi si mettono a parlargli senza essere troppo soffocati sotto i pannelli segnaletici e i manifesti pubblicitari. Hanno ugualmente ancora un po' di strada a fare per sbarazzarsi della loro guida turistica e comprendere che Gesù è la Via. Egli lo dichiara all'apostolo Tommaso che andrà fino in India. Il cristianesimo è un aborigenismo trapiantato e trasfigurato. Qualunque strada è Cristo, anche quella che porta ad un negozio di moto, anche quella che porta al gabinetto, ecco perché bisogna poter cantare lo sciacquone ed il venditore di Harley. Quando un aborigeno aveva finito il suo canto, aveva raggiunto i limiti del suo territorio. Che cosa c'insegna questo fatto? Che il potere del canto è più grande del potere di acquisto. Per abitare veramente da qualche parte, per sentirsi a casa propria, con i propri familiari, bisogna essere capaci di farne un inno da imparare a memoria. Cosa che – da quando il gres rossastro è stato sostituito dal cemento armato, il Serpente Arcobaleno da un'assemblea di condominio – esige un dono soprannaturale. Cosa necessaria, tuttavia, se si vuole abitare davvero, e non solo essere messi in una casella. «Il canto e la terra sono una sola cosa», dice Bruce Chatwin nel Canto delle piste. Subito dopo osserva che «gli uccelli cantano anche i limiti del loro territorio». Cosa che li distingue nettamente dall'Airbus A350. E che li avvicina agli angeli. Questi non hanno altro spazio per spiegare le loro ali che la lode. Il loro accompagnamento delle creature è musicale. Improvvisano sul grande tema della Redenzione. Al paragrafo 244, uno degli ultimi di Laudato si', il papa cita sant'Agostino: «Camminiamo cantando!». E così che si vede quanto gli aborigeni siano in anticipo. Costituiscono nell'evoluzione l'anello intermedio tra gli angeli e gli uccelli.
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