giovedì 9 aprile 2020
Sul cellulare un messaggio da una giovane amica. «Non ne posso più di stare in casa. Sono depressa, e aggressiva come una tigre». Se avessi 25 anni anche io forse sarei aggressiva dopo un mese chiusa in casa, mentre fuori è primavera.
Cerco di consolarla: «Presto le tigri verranno liberate», le scrivo. (Non ne vedono l'ora anche tanti genitori, di lasciare andare le loro tigri adolescenti, cupe, intrattabili). Che shock, per “la generazione EasyJet”, abituata a salire su un aereo come su un tram, non poter andare neanche al bar con gli amici. Questa improvvisa reclusione, che prova per loro, una gabbia spuntata attorno dal nulla. E come prigionieri innocenti, si arrabbiano.
Digito un nuovo messaggio a quell'amica. «Ti sembrerà strano quello che ti dico. Certo, posso dirlo da cristiana, e tu, mi pare, non lo sei. Comunque: un prete che per me è stato un padre, una volta mi ha insegnato una cosa. Forse per chi è cresciuto in oratorio si tratta di una cosa normale, ovvia, eppure non è che ne senta parlare tanto in giro. Dunque, quel prete si era ammalato, e io un giorno gli dissi che proprio non capivo come facesse a sopportare le limitazioni della sua malattia. Che io non lo avrei tollerato, che mi sarei ribellata.
Lui tacque un attimo fissandomi, come mi capisse perfettamente. Poi: “Bisogna offrire tutto – mi rispose – Tutto. Ogni dolore, ogni solitudine, bisogna offrire tutto a Dio. Per i più miserabili. Per chi ha fame o paura o è disperato, per ogni creatura sofferente, dobbiamo offrire il nostro piccolo o grande dolore. Così la sofferenza non è cieca, ma va, come un fiume, verso un bene”. Io sai – ho concluso – Cecilia, l'ho sperimentato: è vero. Questo offrire, dissolve, dentro, la bolla gonfia della frustrazione e del rancore».
La mia giovane amica non mi ha risposto. Avrà scosso la testa: «Invecchiando, si diventa matti...».
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