Maradona, Ahmed e proprio tutti gli altri
mercoledì 2 dicembre 2020
Sono passati otto anni dall'assassinio di Ahmed Younis Khader Abu Daqqa, tredicenne ucciso da una mitragliata all'addome nella striscia di Gaza, nel novembre del 2012, mentre giocava a pallone indossando la maglia di Mesut Özil, il suo eroe: un calciatore in forza, in quel momento, al Real Madrid.
È passata invece una sola settimana dalla scomparsa di Diego Armando Maradona, uno di quei campioni la cui maglia è finita sulle spalle di centinaia di migliaia di ragazzi e il cui cognome è finito simbolicamente sulla maglia tutta nera degli All Blacks, la nazionale neozelandese di rugby, un privilegio senza precedenti.
C'è un dettaglio che unisce queste immagini e tante altre che vediamo quotidianamente arrivare dai confini (di terra o di acqua) dell'Unione Europea, dai Paesi che sono scenario di guerra o da quelli più poveri al mondo: c'è sempre, in quelle fotografie, un ragazzino che indossa una maglia di una squadra di calcio. Lo sport – e il calcio nello specifico in virtù della sua diffusione planetaria – rappresenta uno dei pochi linguaggi veramente universali che esistano. Quelle maglie, che vediamo addosso ai diseredati del mondo, portano scritto un cognome il cui proprietario dovrebbe essere consapevole dell'enorme possibilità di comunicare in maniera profonda, qualunque messaggio desideri. Si chiama responsabilità sociale, ed è un privilegio soprattutto dei grandi campioni, quelli in grado di far impazzire di felicità coloro che li guardano.
Quando gli istituti scolastici (quanto tempo!) erano ancora aperti, nella mia Torino, ero stato ospite di una scuola elementare, in un quartiere che si chiama Aurora ed è un vero luogo di frontiera, con un tasso di immigrati residenti altissimo. In quella scuola, come in tante altre del nostro Paese, si incontrano classi intere fatte da bambini cinesi, nordafricani, romeni che non hanno in comune nessuna lingua, né fra di loro, né con i loro insegnanti. Così, mi spiegavano, il luogo dove insegnare diventa la palestra e lo strumento privilegiato, la palla. Le tabelline? Facile: si imparano contando i palleggi, i passaggi e i canestri di una partita di basket.
Unite i due elementi, quei campioni capaci di trasmettere intensità ed emozioni facendo sognare moltitudini di persone e lo sport con la sua capacità di insegnare regole, disciplina, fatica, inclusione e avrete così rappresentate le due funzioni di questa moderna epica: produrre spettacolo e ispirare gli esseri umani. In qualunque squadra di giovani calciatori l'unico obiettivo è passarsi la palla per fare un gol. Non importano, proprio mai, il colore della pelle, le credenze religiose o le abitudini culturali e molto spesso chi insegna a quei ragazzi a passarsi la palla non è un mediatore culturale ma un farmacista, un impiegato, un operaio, che diventa allenatore e ogni giorno, aprendo con la sua chiave il cesto dei palloni, aiuta il nostro Paese a diventare un posto un po' migliore.
È il meraviglioso paradosso dello sport, quel luogo metafisico dove un campione miliardario dal talento irripetibile, un ragazzino scarso e senza un soldo in tasca, un volontario e un professionista si possono sentire parte di una stessa famiglia, di grandi gioie e, talvolta, della stessa sconfinata tristezza.
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