sabato 24 marzo 2018
Dei milioni di immagini che raccontano il pontificato di Giovanni Paolo II, ce n'è una che sicuramente è destinata a restare per sempre. È l'istantanea che lo riprende di spalle, davanti al crocifisso, il Venerdì Santo del 2005, otto giorni prima della sua morte. Non era potuto andare alla Via Crucis al Colosseo, che seguì in quella posizione dalla sua cappella privata, mentre quell'immagine rimbalzava sui maxischermi tutto attorno all'anfiteatro Flavio, facendo piangere tutti. Quell'anno a dettare le meditazioni per le 14 stazioni era stato il cardinale Ratzinger, quelle famose in cui il commento alla nona fece sobbalzare molti: «Non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c'è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c'è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute».
Rivista oggi, insieme alle parole che l'accompagnavano, quell'immagine di Giovanni Paolo II quasi piegato in due davanti al crocifisso dice davvero un sacco di cose, meglio e più profondamente di qualsiasi commento, di quanto accaduto nella storia della Chiesa da allora ad oggi. Con quell'invito forte, insistito, pressante a porsi sempre in contemplazione davanti alla croce di Cristo che, col suo significare «il trionfo dell'amore nel sacrificio», come spiegò Paolo VI, ci indica quale sia in ogni momento la strada maestra.
Potrebbe sembrare ridondante, o perfino banale, ricordare tutto questo. Ma con tutta evidenza non lo è se ancora domenica scorsa, all'Angelus, papa Francesco ci ha voluto ricordare che «il crocifisso non è un oggetto ornamentale o un accessorio di abbigliamento – a volte abusato! – ma un segno religioso da contemplare e comprendere… Chi vuole conoscere Gesù deve guardare alla croce, dove si rivela la sua gloria». Spiegando il Vangelo del giorno, in cui si racconta dell'arrivo a Gerusalemme di alcuni greci in occasione della Pasqua ebraica i quali, si avvicinano a Filippo dicendogli di volere vedere Gesù. E quel verbo, “vedere”, ha osservato il Pontefice, nel linguaggio dell'evangelista Giovanni vuol dire «andare oltre le apparenze per cogliere il mistero di una persona». Per papa Bergoglio la reazione di Gesù alla richiesta dei greci è sorprendente; egli infatti non dice né sì né no, ma «è venuta l'ora che il figlio dell'uomo sia glorificato».
Proprio queste parole, allora, che «a prima vista sembrano ignorare la domanda, in realtà danno la vera risposta…» con il loro invitarci «a volgere il nostro sguardo al crocifisso: nell'immagine di Gesù crocifisso si svela il mistero della morte del Figlio di Dio come supremo atto di amore, fonte di vita e di salvezza per l'umanità di tutti i tempi”. È rimanendo sempre rivolti verso quella croce, come ci insegnano i papi e come Wojtyla ci ha saputo testimoniare in maniera inimitabile in quell'ultimo venerdì Santo della sua vita, che la nostra esistenza assume il suo vero significato. E dunque rispettare quel simbolo è un atto dovuto per tutti e a tutti i credenti.
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