domenica 11 dicembre 2016
L'imballaggio non è per nulla scontato. Che mangiare sardine corrisponda a ingurgitare alluminio, plastica e cartone, che acquistare cereali sia frutto della seduzione fotografica e della notorietà di un logo, non sembra aver fatto parte delle evidenze di ogni tempo. Non c'è bisogno di rimontare fino al paleolitico. Mi ricordo del mercato di rue Chantecoq, a Puteaux. Il pescivendolo ci incartava un'orata con la pagina di un vecchio giornale: il piombo non era igienico, ma era un piacere per noi bambini vedere i grossi titoli disfarsi ad opera della traspirazione del pesce e del suo potente odore di oceano. Maria, in Tutti insieme appassionatamente, canta che i “brown paper packages” sono tra le sue “favorite things”. Si può dunque a buon diritto far parte di quelli che vanno al mercato con boccali e sacchetti avana e cercano di alimentare se stessi più che la loro pattumiera - sono i sostenitori del non confezionato, lo sfuso. Lo sfuso è ecologico. Lo sfuso rimette le cose a posto. Non solo perché produce meno scarto, ma soprattutto perché ristabilisce l'esperienza sensibile, diretta, concreta, della realtà commestibile. La carne ancora sulla carcassa scorticata, si presenta in tutto il suo crudele splendore, e ci pone ancora una volta, con colore vivo, la questione della macellazione. Il fiocco di mais non sfila sotto lo stendardo del dottor Kellog, in una parata di donne atletiche e mattiniere: arriva umilmente, piccola moneta gialla che non pretende di essere un grosso taglio. Il mercato torna infine a essere quel luogo dei sapori, degli odori, dei pesi portati fisicamente. Non è più schiacciato sotto il marketing che riduce tutto al visuale e al virtuale sullo schermo dello smartphone grazie a un flashcode. Sarebbe tuttavia troppo facile ridurre l'imballaggio alla falsificazione. Osserva Franck Cochoy, specialista della “sociologia dei pacchi”: «Il packaging possiede l'incredibile virtù di poterci informare sul contenuto che nasconde più di quanto non possa farlo il contenuto di per sé: esso può darci una serie di notizie sul prodotto che nessuna esperienza sensoriale dello stesso prodotto nudo potrà mai fornire, come il dettaglio della sua composizione chimica e le informazioni sulla sua origine». Detto in altro modo, la falsificazione dell'esperienza sensibile è fatta nel nome di una verità scientifica e giuridica che permette di abbordare il cibo in una lucidità sanitaria e securitaria e di sostenere un'eventuale causa legale contro il fabbricante, nel caso di una mancata osservanza dell'impegno contrattuale che l'imballaggio implica (la frequente menzione «le foto non hanno valore contrattuale» ne è la prova). L'esperienza del pacco-regalo ci rivela ancora qualcos'altro. L'imballaggio crea un orizzonte di attesa, un divario tra la promessa e la sua realizzazione. Si strappa la carta, si lacera il cellophane, si sforbicia il TetraPak, si attraversa infine il Mar Rosso della pubblicità per entrare in un altrove più vero. La delusione è certa. Ma non importa, solo il procedimento conta. Il packaging fa rivivere il libro illustrato. La sua capacità di fascinazione - quella della pubblicità in generale - attinge a un pozzo antropologico incontestabile: l'uomo non vive di solo pane, ma anche di parola, e il gusto del pane è migliore quando è la parola che lo plasma. Da quando sta scomparendo il venditore ambulante, con i suoi aneddoti e la sua familiarità («Che cosa le do oggi mia bella signora?») gli imballaggi devono farsi affabulatori. Essi esibiscono talvolta tutto uno story-board: la fattoria del Mulino Bianco, l'amaro Montenegro e gli animali in pericolo, la bottiglia di Coca-Cola che bacia le labbra di Elvis o di Marilyn, la gomma del ponte che conduce a Brooklyn… Ciò che sostenta il nostro organismo sociale è il sentirci presi in questa favola, sapendo che è una favola, tanto più deliziosa quanto più ci introduce in un mondo incantato. La qualità del prodotto può anche essere mediocre: l'essenziale sta nella qualità del sogno nel quale ci immette. Anche lo sfuso ha il suo immaginario: quello della convivialità, del rispetto dell'ambiente naturale, dell'accordo con le driadi. C.S. Lewis lo dice mirabilmente: «Il bambino trova gustoso il suo pezzo di carne fredda (altrimenti insipida ai suoi occhi) fingendo che provenga da un bisonte che ha ucciso prima col suo arco e le sue frecce. In questo, il bambino è saggio. La vera carne diventa per lui più saporita essendo stata intinta in una storia. Immergendo il nostro pane, il nostro oro, il nostro cavallo, le nostre mele, le nostre strade di tutti i giorni in un mito, non evadiamo dal reale: lo riscopriamo».
Perché il reale per noi, quello che ci alimenta in profondità, è quello del racconto. Là dove non c'è più racconto della nostra esistenza comune, restano dei frammenti di utopia e le pie menzogne del marketing. Quest'ultimo ha dunque un futuro radioso davanti a sé. A meno che non riusciamo a riappropriarci della produzione e a reinserirla in un racconto locale, ritrovando il viso del contadino, le mani, gli alimenti quotidiani nell'epopea ordinaria dell'umanità.
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