venerdì 1 giugno 2018
Serena Vitale, formidabile studiosa e traduttrice e scrittrice, evocatrice per noi italiani della grande cultura russa, ha scritto due capolavori evocando nel primo la morte di Puskin e nel secondo quella di Majakovskij. Tornata a tradurre, dopo averci dato da poco un Mandelstam, facendoci dono della sua lettura di un piccolo immenso racconto di Dostoevskij, La mite. Se ne sono lette nel corso degli anni altre traduzioni, ma mi pare sia questa quella definitiva, la più pensata e partecipe, accompagnata da note e pensieri che ci fanno capire, del racconto e dell'autore, tutto lo strazio e tutta la grandezza. (Da La mite trasse un film Robert Bresson, Così bella, così dolce, che ci fece piangere di un pianto non liberatorio.) Dostoevskij si mette nei panni del padrone di un banco di pegni, e il racconto è il suo monologo interiore, la veglia accanto al corpo della giovanissima moglie, suicida. La mite, appunto. Con un'imbarazzante capacità di scavare nei sentimenti umani e nella loro contradditorietà, il narratore (dunque il personaggio, dunque lo scrittore) si confronta con l'umile grandezza di una mite, una di quelle creature che, secondo le Beatitudini, erediteranno il regno dei cieli. Tutti, credo, abbiamo avuto la fortuna di conoscere qualcuna di queste pur rare creature, ma nessuno ha saputo raccontarne come Dostoevskij la diversità e bellezza, confrontandola con la nostra comune miseria, accostati dallo scrittore a un personaggio in cui egli stesso si identifica. Molti anni fa, al tempo di “Linea d'ombra”, chiesi a Norberto Bobbio un testo per la rivista, che in qualche modo ricordasse la sua amicizia con Aldo Capitini, ed egli ci regalò un Elogio della mitezza che aveva pensato da tempo e che pubblicammo in forma di opuscolo. Credo sia tra le cose più belle da lui scritte, e in seguito è stato letto, amato e studiato da molti. Suscitò anche qualche riserva tra i nonviolenti, di cui tenemmo conto chiedendo di ragionarci a Giuliano Pontara, lo studioso di Gandhi. Egli rimproverò a Bobbio di ritenere la mitezza una virtù «che in politica non ha alcuna parte», e ne nacque un confronto che mi pare ancora di massima attualità, in un mondo feroce come è il nostro. Insieme a La mite, varrebbe la pena rileggere Un cuore semplice di Flaubert e Anima cara di Cechov, storie non tragiche come quella, anche se resta La mite la più sconvolgente, perché vi si narra la mitezza dal punto di vista della nostra pochezza, della nostra viltà.
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