sabato 20 luglio 2019
Siamo sommersi di notizie. Tra giornali, televisione, social e internet ce ne arrivano molte di più di quante ne possiamo ricordare o anche semplicemente leggere. E la maggior parte – chiacchiere da bar, pettegolezzi, presunti trend modaioli – inutili. In compenso altre che, al contrario, sarebbe giusto conoscere per capire il tempo in cui viviamo non arrivano. Come succede con l'Africa, percorsa da crisi devastanti e guerre senza fine delle quali non ci giunge neppure l'eco. Chi ha sentito per esempio del "Messaggio ai nostri compatrioti" che la Conferenza Episcopale della Costa d'Avorio ha pubblicato qualche giorno fa e in cui, in vista delle elezioni del 2020, dopo i recenti scontri e il ricordo ancora vivo della crisi post elettorale nove anni fa causò oltre 3 mila morti, i vescovi implorano: "Evitateci un'altra guerra!". Nessuno, non ne ha saputo niente nessuno, o quasi.
Del resto non è un caso se l'Africa, da quando è caduta la logica delle "sfere d'influenza" figlia della Guerra fredda, è diventato il continente dimenticato. Le crisi e le guerre? Affari loro. Peccato che questa "dimenticanza" sia molto selettiva, e che dell'Africa si ricordino invece molto bene i tanti che la vogliono sfruttare, a cominciare da quei venditori di armi – nazioni o trafficanti non fa differenza – che hanno saturato il continente di strumenti di morte. Una logica perversa contro la quale, oggi, quasi solo la Chiesa fa sentire la sua voce – e solo essa con incessante continuità – nel denunciare questo obbrobrio.
Se già a partire da Giovanni XXIII con la Pacem in Terris del 1963 la Chiesa ha, con estrema chiarezza, ripetutamente ed esplicitamente denunciato l'immoralità ed i rischi connessi alla produzione e alla proliferazione di armi, è proprio al commercio delle armi che ha dedicato le sue parole più dure. Nel maggio del 1978, indirizzandosi alla sessione speciale che l'Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva deciso di consacrare al problema del disarmo, Paolo VI affermò: «Una menzione va fatta anche del commercio delle armi convenzionali, che sono, per così dire, il principale nutrimento delle guerre locali o limitate. Di fronte all'immensità della catastrofe che significherebbe per il mondo od interi continenti una guerra combattuta ricorrendo all'intero arsenale delle armi strategiche e di altro genere, tali conflitti possono apparire di minore importanza, se non trascurabili. Ma le distruzioni e le sofferenze che essi causano alle popolazioni investite non sono inferiori a quelle causate, su ben altra scala, da un conflitto generale. E l'aggravio delle spese in armamenti può soffocare l'economia di Paesi spesso ancora sulla via dello sviluppo. Senza contare, poi, il pericolo che, in un mondo divenuto ormai piccolo e nel quale i differenti interessi si intersecano e si contrastano, un conflitto locale possa a poco a poco provocare incendi assai più vasti». E di qui il rinnovato invito, già lanciato a Bombay nel 1964, «di devolvere a beneficio dei Paesi in via di sviluppo una parte almeno delle economie che si possono realizzare con la riduzione degli armamenti».
Parole profetiche, che hanno segnato una direzione irreversibile. Una strada che Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e oggi Francesco hanno continuato instancabilmente a seguire. Perché, come dice Bergoglio, se «i corrotti, coloro che fanno la tratta degli schiavi e i fabbricanti di armi che sono mercanti di morte dovranno rendere conto a Dio», anche noi dobbiamo fare la nostra parte. Perché non ci si può dimenticare di nessuna guerra, perché non sono "affari loro". Siamo tutti coinvolti.
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