giovedì 4 marzo 2021
Erano i giorni del primo lockdown. Per strada, il cane al guinzaglio, vedo una giovane signora che al mio avvicinarmi si rannicchia in un portone. “Il cane è buono”, la rassicuro. Ma quella, da oltre tre metri: “La distanza di sicurezza!”, intima, quasi aggressiva. “Signora, si tranquillizzi – m'è venuto da dirle, meravigliata – Covid o no, non siamo certi nemmeno di essere vivi domani...”. La signora mi guarda come offesa e va, cupa, attenta a evitare altri umani. Ma, con i mesi, il virus ha insinuato nelle nostre distratte latitudini una variabile impazzita: la coscienza che non un giorno di vita ci appartiene. Sulle strade si moriva anche prima, ma, “tragica fatalità”, dicevamo, opera di un destino baro. Con molte diagnosi poi, pure drammatiche, si poteva trattare: e prolungare i giorni, e perfino guarire. Il male invisibile, contagioso, per alcuni mortale, ci riporta in una precarietà da cui ci credevamo affrancati. Eravamo un po' come pagani. Inoltre vaccinati, e in molti vitaminizzati, e in forma – padroni del nostro corpo, tranne che per mali peraltro spesso evitabili, con un'oculata prevenzione. Si è incrinata nelle faglie profonde questa sicurezza. Attendiamo come una manna il vaccino. Non solo perché, come è auspicabile, ci proteggerà: ma perché ricaccerà nel passato remoto l'assurdo dubbio, che della vita non siamo padroni. Il vaccino: e tutto, ci diciamo, tornerà “come prima”.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI