mercoledì 7 gennaio 2004
Abbà Nisteroo il Grande stava camminando nel deserto con un fratello quando videro un drago e fuggirono. In seguito il fratello gli chiese: «Padre, anche tu avevi paura?». Il maestro rispose: «Figlio mio, non avevo paura, ma è stato meglio per me fuggire dal drago, altrimenti non sarei riuscito a scappare dallo spirito di vanagloria». S'intitola Aforismi dei padri del deserto (ed. Gribaudi) ed è accompagnato dalle considerazioni generali di un autore spirituale noto anche in Italia, Henri J.M. Nouwen, scomparso nel 1996. Scegliamo uno di questi racconti apparentemente ingenui eppure capaci di offrire una lezione di vita semplice forse ma genuina. Il tema della mini-parabola è la vanagloria, difetto che lascia una macchia, più o meno estesa, nell'anima di tutti. Alzi la mano chi non s'è mai lasciato cullare dalle onde dolci di un complimento, di un successo, di un apprezzamento. Dalla naturale soddisfazione per un risultato positivo è, infatti, facile passare a sogni di gloria, immaginare di possedere capacità uniche, allargare la ruota del pavone pensando a un'aureola di luce attorno a sé. La vanagloria ha appunto come rischio non solo la superbia altezzosa ma soprattutto l'illusione, ed è proprio per questa via che può diventare fin patetica. Lo dice molto bene il poeta romanesco Trilussa nella sua famosa La lumaca: «La Lumachella de la Vanagloria,/ ch'era strisciata sopra un obelisco,/ guardò la bava e disse: Già capisco/ che lascerò un'impronta ne la Storia». L'antidoto alla vanagloria è, allora, prima di tutto il realismo, lo scuotersi dal sogno, il modesto incidente che ti riporta subito tra i
mortali, forse anche tra l'ironia un po' beffarda degli spettatori che poco prima ti applaudivano.
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