martedì 29 ottobre 2002
Il dolore è il filo con cui la stoffa della gioia è tessuta. L'ottimista eccessivo non conoscerà mai la gioia. È questo uno dei "paradossi" che il grande teologo francese Henri de Lubac (1896-1991), creato cardinale nel 1983, amava formulare nei suoi scritti. In realtà, è facile intuire il senso profondo di questa dichiarazione: il dolore, se vissuto in modo cosciente e secondo un ideale, sprigiona un'energia che purifica e trasfigura, rende sensibili e realistici e alla fine fa meglio gustare la vita e la stessa felicità. Esopo, il famoso favolista greco del VII-VI sec. a.C., aveva introdotto al termine di una delle sue favole, quella del cane e del cuoco, un gioco di parole: pathèmata mathèmata, cioè le sofferenze sono insegnamenti. Detto questo, bisogna ovviamente non dimenticare anche l'aspetto oscuro e il lato misterioso e fin scandaloso del dolore. Tuttavia io vorrei sottolineare la seconda parte dell'affermazione di de Lubac, quella contro "l'ottimista eccessivo". Se è vero che esistono molti che si crogiolano in un pessimismo acre fonte di inerzia e di isolamento, è altrettanto vero che si può sviluppare un ottimismo banale, che duramente lo scrittore cattolico francese Georges Bernanos definiva «la falsa speranza a uso dei vili e degli imbecilli». Certe volte nella società si respira proprio questo clima fatuo che impedisce di denunciare le ingiustizie e le storture e che guarda dall'altra parte quando si è di fronte ai problemi veri e profondi della vita, accontentandosi dell'illusione e del proprio interesse.
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