sabato 28 luglio 2018
Verso la fine degli anni 80 la Sala Stampa vaticana non era ancora informatizzata e le notizie viaggiavano, per così dire, con una certa calma. In compenso, in quello stesso momento il mondo dell'informazione iniziava la formidabile accelerazione che l'avrebbe in un decennio portato a muoversi in tempo reale, con tutte le conseguenze del caso. Successe così che un giorno un redattore di un'agenzia di stampa si trovò pressato dal suo capo, che gli chiedeva che cosa dicesse il Vaticano rispetto a non ricordo più quale calamità naturale fosse successa nel mondo. Il redattore in questione per tre o quattro volte riuscì a resistere alle richieste sempre più insistenti, mentre intanto dalla Sala Stampa gli dicevano che "presto" sarebbe uscito un comunicato. Alla fine però, non sapendo più cosa inventarsi col suo capo, finì col dettare questo testo: «Appresa la notizia della tragedia, il Santo Padre si è raccolto in preghiera per le vittime nella sua cappella privata». Tanto, replicò a chi gli faceva notare che non era una cosa proprio corretta: «Mica mi possono smentire, mica possono dire che no, il Papa non ha pregato».
Questo episodio è ritornato alla mente leggendo, martedì scorso, le accorate espressioni di cordoglio e rincrescimento di papa Francesco, accompagnati dalla sua preghiera, per le vittime degli incendi in Grecia e per le conseguenze del crollo della diga in costruzione in Laos. Messaggi come questi sono oggi considerati quasi scontrati, se non addirittura ripetitivi o perfino di maniera. Una routine che scatta automaticamente. Dai tempi di Giovanni Paolo II in avanti, infatti, ogni volta che succede un evento del genere dopo un po' arriva puntuale la notizia del messaggio del Papa, il quale, appunto, «prega per le vittime». Quasi un fatto scontato, come detto.
Il punto, però, è che un fatto scontato non lo è mai. E non lo sarà mai. Per quanto si possa essere assuefatti a queste manifestazioni di vicinanza, di prossimità, di vera e propria compartecipazione al dolore e al lutto che tali messaggi esprimono, il loro senso più vero e profondo sta proprio nell'annuncio di quella preghiera levata dal Papa, dunque, da tutta la Chiesa. Che forse a qualcuno può sembrare poco, ma non lo è, come certamente non è neppure una sorta di "atto dovuto". Si tratta, al contrario, di una convinzione che ogni volta si rinnova. Perché la preghiera, come papa Francesco ha ricordato nel febbraio del 2016, «è una forza che muove il mondo. Noi crediamo questo? È così? Fate la prova... La preghiera non è una buona pratica per mettersi un po' di pace nel cuore; e nemmeno un mezzo devoto per ottenere da Dio quel che ci serve. Io prego per stare bene come se prendessi... Non è così. Io prego per ottenere questo... Ma questo è fare un negozio, la preghiera è un'altra cosa, è un'opera di misericordia spirituale, che vuole portare tutto al cuore di Dio... è un dono di fede e di amore di cui c'è bisogno come del pane».
Ma soprattutto la preghiera è «la migliore arma che abbiamo, una chiave che apre il cuore di Dio», una chiave facile perché «il cuore di Dio non è blindato, tu puoi aprirlo con una chiave comune, con la preghiera». La preghiera «è la più grande forza della Chiesa, che non dobbiamo mai lasciare altrimenti si rischia di appoggiarsi altrove: sui mezzi, sui soldi, sul potere; poi l'evangelizzazione svanisce, la gioia si spegne e il cuore diventa noioso. Volete avere un cuore gioioso? Pregate sempre! Siate sempre apostoli gioiosi della preghiera, perché la preghiera fa miracoli».
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