domenica 4 febbraio 2018
I ragazzi entrano a scuola in fila indiana. Vengono da tutto il mondo. Noi li aspettiamo all'accettazione. Prendiamo il loro nome, diamo a ogni allievo il foglio protocollo dove sono annotate le lezioni appena fatte e li affidiamo al singolo insegnante. Senza classi. E senza voti. Ogni tanto, in mezzo alla folla dei primi arrivi, ce n'è sempre uno che mi bisbiglia all'orecchio qualcosa di personale. So già cosa vuole chiedermi: un posto dove pregare. Circa il novanta per cento dei nostri studenti sono di religione musulmana. Andiamo insieme verso un luogo appartato. Non sempre ne abbiamo potuto disporre. Ricordo angoli in fondo al corridoio, zone di fortuna ricavate negli androni. Adesso abbiamo una stanzetta dove poter far stendere il tappettino da orientare verso la Mecca. Mentre il ragazzo recita le “sure” quotidiane, io faccio in modo che nessuno lo disturbi. Mi metto vicino alla porta. Divento una sentinella spirituale. Una guardia delle sue richieste, dei suoi proclami, delle sue raccomandazioni. E mi viene in mente il giorno in cui in Africa fummo invitati a pregare in una moschea all'aperto. Alla fine molti ragazzini vennero a salutarci e si misero la mano sul petto in segno di amicizia. Domanda retorica: perché i capi dei grandi Stati non si comportano come questi bambini?
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