domenica 17 dicembre 2006
Una mano che è sempre aperta o sempre chiusa è una mano storpia. Un uccello che non sa aprire e chiudere le ali non volerà mai. La mano è certamente uno dei capolavori di cui siamo stati dotati: con essa scriviamo, forgiamo le cose, accarezziamo, percepiamo la morbidità di una pelle e il viscido di una serpe, esprimiamo sentimenti e necessità coi suoi gesti, stringiamo in un abbraccio e, purtroppo, colpiamo a pugni un altro. Lunga è la lista delle azioni che la mano compie, attraverso la complessità delle sue articolazioni, tant'è vero che si dice che la chirurgia della mano sia tra le più complesse e non per nulla i trapianti di mano sono così rari e dagli esiti molto incerti. Ad assegnare alla mano una funzione di simbolo morale è la citazione di un grande poeta mistico musulmano del Duecento, Gialal al-din Rûmî, noto per il suo immenso poema Mathnawî, tradotto da qualche mese anche in italiano (Bompiani). Nella vita bisogna saperci aprire agli altri come una mano, donando, amando, sostenendo. Ma ci sono anche momenti in cui bisogna chiuderci in noi stessi per riflettere, per tacere, per incontrare la propria coscienza. L'esistenza esige questi due ritmi fondamentali della mano aperta all'altro e della mano chiusa in preghiera o sul petto. È in questa alternanza, tipica anche delle ali (che sono un po' le mani degli uccelli), che si vive veramente, volando ora raso terra ora verso l'alto dei cieli. Il solo agire con le mani può renderci protesi all'esterno, in un impegno necessario ma distraente e fin superficiale quando diventa esclusivo. Il solo stringere le mani su noi stessi ci rende egoisti e solitari. La mano che è non è storpia, si apre e si chiude in un ritmo armonico e libero.
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