giovedì 18 settembre 2003
Adirarsi è facile, ne sono tutti capaci, ma non è assolutamente facile e soprattutto non è da tutti adirarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per la giusta causa. Ira, collera, rabbia, furore, stizza, sdegno, indignazione sono vocaboli spesso usati come sinonimi, senza badare più di tanto alle sfumature dei loro significati. Si delinea, così, il primo dei vari vizi capitali, quelle malattie dell'anima codificate da un antico elenco tradizionale in un settenario. In realtà, come già insegnava il filosofo greco Aristotele nel brano della sua Etica a Nicomaco (n. 1109a) da noi citato, è necessario operare alcune distinzioni, al punto tale che se la rabbia cieca e furibonda è un vizio pericoloso e persino deleterio, lo sdegno contro l'ingiustizia, la violenza e il male può essere invece una virtù. Una virtù praticata dai profeti e dallo stesso Cristo: si provi a leggere, da un lato, i sei "guai!" di Isaia (5, 8-25) e i sette "guai!" di Gesù (Matteo 23, 1-33). «Serpenti, razza di vipere» non è solo un urlo del Battista ma è anche una frase ripresa da Cristo nella sua denuncia dell'ipocrisia di scribi e farisei. Se, allora, bisogna saper controllare e comprimere il ribollire bestiale dell'ira che trabocca scoppiando e che è ben raffigurato dalle immagini della bava alla bocca, della voce strozzata e del digrignare dei denti, come si è soliti dire, è necessario però saper coltivare e vivere lo sdegno che si appunta contro coloro che operano il male e contro le strutture inique. Sempre, però, come ricorda Aristotele, «nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per la giusta causa». E questo non è né poco né facile da praticare; è tuttavia necessario, se non si vuol cadere nella rabbia pura e semplice.
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