martedì 13 maggio 2003
Quando gioco con la mia gatta, non riesco a sapere se è lei a divertirsi di più con me o piuttosto se sono io a divertirmi con lei. È sicuramente per merito della mia famiglia, che ha sempre avuto in casa almeno un gatto, che anch'io appartengo alla schiera di coloro che rimangono affascinati dall'eleganza ora indolente ora aggressiva di questo felino. Ed è accaduto anche a me, durante qualche sosta o visita a casa, di rimanere incantato giocando col gatto. Ho capito, allora, che forse aveva ragione il grande Montaigne (1533-1592) quando nei suoi Saggi descriveva il divertirsi con la gatta che condivideva il suo isolamento nelle campagne di Bordeaux. C'è nel vero divertimento un aspetto libero, creativo, privo di riserve, ignaro del giudizio altrui. Il vero gioco non è un semplice passatempo, un diversivo, una distrazione: è qualcosa di più profondo che coinvolge tutto l'essere. Basterebbe solo osservare un bambino alle prese con un giocattolo, anche se adesso gli adulti fanno di tutto coi loro regali elettronici per togliere il gusto della fantasia. È, dunque, ben diverso dal gioco autentico lo spirito "commerciale" di oggi o il tifo degli stadi calcistici quando si va solo per abbrutirsi, accecarsi nell'odio del "nemico", abbandonarsi a violenze. C'è, dunque, un rischio permanente: il gioco può essere inquinato e distrutto dallo sfruttamento economico o dalla brutalità o anche dall'obbligo sociale o della moda. Vorremmo a quest'ultimo proposito - l'obbligo di doversi "divertire" a tutti i costi - citare una battuta attribuita a un politico e scrittore inglese, Edward Bulwer-Lytton (1803-1873): «La vita sarebbe abbastanza divertente se non fosse per i suoi divertimenti».
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