sabato 7 aprile 2018
Il giorno dopo Pasqua, nell'introdurre la recita del Regina Coeli (la preghiera Mariana che fino a Pentecoste sostituisce l'Angelus domenicale), Papa Francesco ha parlato di bene comune. Che, ha detto, è un qualcosa di intrinsecamente connesso al messaggio pasquale, ed è dunque un obiettivo per ogni cristiano, in quanto «non ci può essere una vera comunione e un impegno per il bene comune e la giustizia sociale senza la fraternità e la condivisione». Senza condivisione fraterna infatti «non si può realizzare una comunità ecclesiale o civile: esiste solo un insieme di individui mossi o raggruppati dai propri interessi». La Pasqua di Cristo, al contrario, «ha fatto esplodere nel mondo un'altra cosa: la novità del dialogo e della relazione, novità che per i cristiani è diventata una responsabilità».
In questo particolare momento del Paese, in cui una politica che accusa chiaramente una preoccupante carenza di orientamento, in cui la dizione “bene comune” viene determinata in molti modi diversi e spesso singolari, questo richiamo di Bergoglio al tradizionale significato di quel concetto come è stato sviluppato dal magistero pontificio, suona come qualcosa da appuntarsi tutte le agende. Nel 1968, parlando di quella che deve essere la «concezione organica della società», Paolo VI mise in evidenza come questa «non deve risultare dall'urto di contrastanti e irriducibili avidità, ma dall'armonia dialettica della collaborazione a un ordine giusto per tutti e della partecipazione a un bene comune razionalmente distribuito». E fu attorno a questa idea radicata appunto nella collaborazione e partecipazione che Giovanni Paolo II costruì nel 1991 la sua Centesimus annus, in cui il bene comune «non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione fatta in base ad una equilibrata gerarchia di valori, e in ultima analisi, ad una esatta comprensione della dignità e dei diritti della persona». Ed allora per questo che, secondo quanto affermato da Benedetto XVI, «l'esercizio dell'autorità, a ogni livello, deve essere vissuto come servizio alla giustizia e alla carità, nella costante ricerca del bene comune». Infatti, aveva detto in una occasione, «i conflitti per la supremazia economica e l'accaparramento delle risorse energetiche, idriche e delle materie prime rendono difficile il lavoro di quanti, ad ogni livello, si sforzano di costruire un mondo giusto e solidale... C'è bisogno di una speranza più grande, che permetta di preferire il bene comune di tutti al lusso di pochi e alla miseria di molti», attraverso una moderazione che «non è solo una regola ascetica, ma anche una via di salvezza per l'umanità… (in quanto) è ormai evidente che soltanto adottando uno stile di vita sobrio, accompagnato dal serio impegno per un'equa distribuzione delle ricchezze, sarà possibile instaurare un ordine di sviluppo giusto e sostenibile».
Non esiste, dunque, un bene comune che possa essere slegato dalla responsabilità. Che possa in alcun modo escludere qualcuno a beneficio di altri. Ma non esiste neppure, ci dice Papa Francesco, un bene comune unicamente delegabile a chi ha responsabilità pubbliche. Perché «la fraternità è il frutto della Pasqua di Cristo che, con la sua morte e risurrezione, ha sconfitto il peccato che separava l'uomo da Dio, l'uomo da sé stesso, l'uomo dai suoi fratelli». E solamente una autentica fraternità diffusa «può garantire una pace duratura, può sconfiggere le povertà, può spegnere le tensioni e le guerre, può estirpare la corruzione e la criminalità».
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