mercoledì 18 giugno 2003
Ogni volta che un uomo caparbio vede una colpa commessa da un altro, un fuoco esce diritto dall'inferno e lo fa ardere. Chiama questo orgoglio difesa della fede, non vedendo che in realtà è lo spirito dell'arroganza che agisce in lui. La vera difesa della fede ha un segno diverso: il suo fuoco, infatti, rende il mondo intero verdeggiante. A scrivere queste parole così attuali era un famoso mistico e poeta musulmano vissuto nel XIII secolo, Gialal ad-Din Rumi, fondatore dei dervisci danzanti di Konya in Turchia. Nell'opera Il Canto dello Spirito. Aneddoti dal Matnawî, il suo poema "spirituale" per eccellenza (Mimesis 2000), ci imbattiamo in questo illuminante giudizio sull'autentica difesa della fede. Ci sono certi "difensori" della civiltà cristiana che si oppongono in pubblico (sui giornali o in televisione) o in privato ad altrettanti "difensori" dell'islam con la stessa rabbia e veemenza. Li brucia un fuoco che essi contrabbandano per ardore dello spirito divino, in realtà "esce diritto dall'inferno" perché si nutre di odio, di disprezzo, di intolleranza. Alla radice c'è - come diceva Rumi - l'arroganza, la superbia, talora persino l'interesse egoistico per la propria parte. La vera difesa della fede dev'essere, sì, appassionata e ardente, ma non deve radere al suolo, seminando deserto, eliminando l'altro. Deve, invece, essere feconda e generare vita, dialogo, pace. Ai discepoli Giacomo e Giovanni che vorrebbero invocare sugli avversari un fuoco dal cielo per consumarli Gesù "si volta e li rimprovera" (Luca 9, 54-55), consapevole di essere venuto non per giudicare e condannare ma per comprendere, perdonare, amare.
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