sabato 2 marzo 2019
Qualche giorno fa, chiosando la prima relazione di una donna – Linda Ghisoni, sottosegretario della sezione per i fedeli laici del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita – al summit sugli abusi che si è svolto in Vaticano, papa Francesco ha detto una cosa molto importante: «Invitare a parlare una donna non è femminismo ecclesiastico», perché alla fine ogni femminismo diventa «un machismo con la gonna». Allo stesso modo non si tratta di dare alle donne «più funzioni», ma di integrare la figura femminile come immagine reale della Chiesa. E commentando nel merito l'intervento di Ghisoni ha aggiunto che «ascoltandola ho sentito la Chiesa parlare di se stessa. Cioè tutti noi abbiamo parlato sulla Chiesa. In tutti gli interventi. Ma questa volta era la Chiesa stessa che parlava». Parole importanti, che rimandano a un magistero consolidato e, tuttavia, mai abbastanza ribadito. Radicato in quel Messaggio che nel 1965, alla fine del Concilio, Paolo VI volle indirizzare alle donne. «La Chiesa – si leggeva all'inizio di quel testo – è fiera, voi lo sapete, d'aver esaltato e liberato la donna, d'aver fatto risplendere nel corso dei secoli, nella diversità dei caratteri, la sua uguaglianza sostanziale con l'uomo. Ma viene l'ora, l'ora è venuta, in cui la vocazione della donna si completa in pienezza, l'ora in cui la donna acquista nella società un'influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto. È per questo, in questo momento nel quale l'umanità sperimenta una così profonda trasformazione, che le donne imbevute dello spirito del Vangelo possono tanto per aiutare l'umanità a non decadere. Voi donne avete sempre in dote la custodia del focolare, l'amore delle origini, il senso delle culle. Voi siete presenti al mistero della vita che comincia. Voi consolate nel distacco della morte. La nostra tecnica rischia di diventare disumana. Riconciliate gli uomini con la vita. E soprattutto vegliate, ve ne supplichiamo, sull'avvenire della nostra specie. Trattenete la mano dell'uomo che, in un momento di follia, tentasse di distruggere la civiltà umana». Era l'affermazione di un ruolo della donna non solo non più e mai più subalterno, ma unico e originale e insostituibile, tanto nella Chiesa quanto nella società. Un ruolo che ventitré anni più tardi, nel 1988, Giovanni Paolo II declinò meravigliosamente nella Mulieris dignitatem, fissando con l'espressione «genio femminile» quel di più irripetibile che solo la donna può dare. Per questo allora, ha affermato papa Bergoglio l'altro giorno, non è solo una questione di stile, è «il genio femminile che si rispecchia nella Chiesa che è donna». Così che, appunto, «invitare a parlare una donna non è entrare nella modalità di un femminismo ecclesiastico, perché alla fine ogni femminismo finisce con l'essere un machismo con la gonna». No. Ascoltare una donna che riflette «sulle ferite della Chiesa è invitare la Chiesa a parlare su se stessa, sulle ferite che ha». Un passo da «fare con molta forza: la donna è l'immagine della Chiesa che è donna, è sposa, è madre». Uno stile senza il quale «parleremmo del popolo di Dio come organizzazione, forse sindacale, ma non come famiglia partorita dalla madre Chiesa». È «il mistero femminile della Chiesa che è sposa e madre». E a proposito di chi chiede un maggior rilievo femminile nelle istituzioni ecclesiastiche, il Papa dice: «Non si tratta di dare più funzioni alla donna nella Chiesa – sì, questo è buono, ma così non si risolve il problema – si tratta di integrare la donna come figura della Chiesa nel nostro pensiero». E pensare «la Chiesa con le categorie di una donna». Si tratta di guardare finalmente alla donna in modo diverso e di saper guardare e vedere come guarda e vede una donna.
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