sabato 21 settembre 2013
C'è una generazione di ebrei per cui l'uscita dall'Egitto si è realizzata in senso letterale, non simbolico, è quella degli ebrei egiziani che sono stati obbligati all'esilio dopo la guerra del 1956. Ne parla nella sua incantevole autobiografia l'etnologo e psicoanalista francese Tobie Nathan, nato al Cairo e vissuto dai dieci anni in poi a Parigi. È la sua la storia di un esilio, ma al tempo stesso la storia del mondo intellettuale francese con cui Nathan si è formato, da George Devereux a Lacan a Lyotard a Foucault a tanti altri. È la storia del maggio Sessantotto e poi della Parigi degli anni Settanta e Ottanta, affollata, fra gli intellettuali e in particolare fra gli psicoanalisti, di profughi del nazismo, di profughi del comunismo, di esuli dall'Algeria, per la maggior parte ebrei, ma non esclusivamente, tra infiniti contrasti di scuole e di individui. Francese quanto più non potrebbe essere, tuttavia, l'autobiografia di Nathan rivela identità diverse: la patria egiziana, la cittadinanza italiana, presa ancora in Egitto, la discendenza da famosi rabbini, la molteplice identità professionale, tra psicoanalisi ed etnologia, il comunismo e poi il Sessantotto. Tutte rivendicate con grande leggerezza e brio.
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