giovedì 11 maggio 2017
Morì fra le braccia del Savonarola. Negli ultimi tempi infatti gli era divenuto amico e ne seguiva le orme. Parliamo di Pico della Mirandola, spirato a Firenze il 17 novembre 1494, il giorno dell'ingresso in città di Carlo VIII re di Francia. Solo apparentemente i due possono essere considerati lontani, o addirittura agli antipodi: il primo autore del manifesto dell'Umanesimo, quell'Oratio che esaltava la grandezza dell'uomo e ne magnificava le potenzialità, il secondo predicatore austero e millenarista. In realtà il domenicano ferrarese, come ben dimostra il libro L'alba incompiuta del Rinascimento, opera di uno dei più grandi teologi del XX secolo, il cardinale Henri de Lubac, non può essere considerato un nemico radicale della cultura. Se egli sosteneva che «fra le scienze, logica, filosofia, metafisica e altre, la più grande di tutte è quella della sacra scrittura», non voleva esprimere nessun disprezzo del sapere umano. Pico fu sedotto dal suo profetismo o ne fu inquietato? Per de Lubac non è facile rispondere al quesito: è certo che fu il conte della Mirandola che sollecitò Lorenzo il Magnifico a richiamare il predicatore a Firenze, ma nel suo fervore spirituale non smarrì mai equilibrio e razionalità. Si dice che avrebbe concepito l'idea di entrare lui stesso nell'ordine dei frati domenicani ma ciò non è in contrasto con la fase della sua vita in cui immaginò di realizzare a Roma un congresso filosofico universale.
Eppure molti storici, Eugenio Garin in primo luogo, hanno visto in Pico l'antesignano dell'illuminismo, il Prometeo moderno capace di ribellarsi alla trascendenza per esaltare solo i valori dell'uomo. Il teologo francese invece dimostra come Pico non offuscò mai l'originalità del cristianesimo. Non solo, ha buon gioco nell'evidenziare come non può essere considerato né un cabalista né un sincretista, tantomeno un apostolo della religione naturale o di un cristianesimo solo interiore lontano dalla Chiesa. E neppure uno spirito semipagano. Piuttosto, il fautore di un grande progetto basato sulla volontà di «mostrare nella rivelazione evangelica l'unica pienezza verso la quale oscuramente tendeva tutto ciò che poteva esserci di valido nelle migliori filosofie religiose dell'umanità greco-latina».
La speculazione di Giovanni Pico si sofferma su due questioni: la libertà dell'uomo e l'unità dei saperi. Nell'Orazione sulla dignità dell'uomo si può leggere infatti: «Noi non ti abbiamo fatto – dice Dio rivolto ad Adamo – né celeste né terrestre, né mortale né immortale, così che, padrone di te stesso e avendo per così dire l'onore e l'onere di plasmare il tuo essere, tu ti possa forgiare la forma che avrai preferita. Tu potrai degenerare in forme inferiori, animali; tu potrai essere rigenerato in forme superiori, divine». È una sorta di invito alla divinoumanità quello di Pico, che nella seconda parte dell'Oratio propone un disegno ideale di concordia tra le diverse filosofie e religioni, come Nicola Cusano in quello stesso secolo aveva immaginato un congresso mondiale delle religioni per la pace. Il tentativo di Pico in realtà si trovò di fronte a numerosi ostacoli e le sue 900 tesi che compendiavano il sapere universale furono condannate dalla Chiesa e solo verso la fine egli fu riabilitato. Voleva sì conciliare filosofia e religione ma non secondo un'ipotesi razionalistica, come lui stesso spiegò: «La filosofia cerca la verità, la teologia la trova, la religione la possiede».
Contro l'ipotesi di Garin, de Lubac interpreta Pico della Mirandola come il primo vero protagonista dell'Umanesimo cristiano, di un piano grandioso che altri condivisero (Cusano, Erasmo, Moro) ma che rimase irrealizzato: la tendenza paganeggiante e materialistica, rappresentata da Bruno e Campanella, avrebbe prevalso segnando un conflitto della fede con la ragione. E purtroppo con quei valori come libertà e pluralismo propri del cristianesimo ma spesso spenti e non riconosciuti, tanto che solo una grande rivoluzione laica, quella del 1789, li porrà alla base del mondo contemporaneo.
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