venerdì 29 giugno 2018
Trent'anni fa Bompiani pubblicava le lettere famigliari del 1945-53 di Umberto Saba (morto nel 1957) a cura di due giovani studiosi e con l'accordo e la supervisione di Linuccia, figlia del poeta nonché compagna di Carlo Levi, che ricordo magrissima, rugosa, silenziosa. Fu probabilmente lei a scegliere il titolo del libro, estraendolo da una delle lettere: Atroce paese che amo, che è anche il titolo dell'ultimo numero di “Gli asini”. Ne era questo il motivo dominante, e quest'affermazione contraddittoria ci è tornata spesso alla mente in queste settimane, perché, sì, ci sembra più che mai difficile amare questo paese per come esso ha voluto diventare, e tuttavia i nostri occhi sono pur sempre pieni delle sue meraviglie, della sua natura e della sua arte, e i nostri affetti delle sue presenze. I più vecchi hanno forte il ricordo di un popolo perlopiù povero o poverissimo (ed erano poveri o poverissimi, anche se non lo si dice spesso, la maggior parte dei preti, dei parroci, quelli di campagna) e di una società tremendamente classista, ma di un popolo in attesa di riscatto e in lotta per il suo riscatto, composto anzitutto di contadini e poi di artigiani, operai, piccoli impiegati, piccoli commercianti. E di intellettuali, infinitamente meno di quelli nati, oggi, dall'accesso agli studi dei nipoti di quel popolo, un popolo che proprio media e università
hanno contribuito, più di ogni altra cosa, a massificare e a evirare. (Che libri uscivano negli anni '50, '60, '70? Si faccia il confronto – parlo di qualità non di quantità – con quelli di questi anni.) Il paese era allora “atroce” per la protervia e aggressività della sua borghesia e dei suoi scherani, ma era impossibile non amarlo, o quantomeno non amare le sue potenzialità, le sue speranze, la sua volontà di riscatto insieme, ovviamente, alla sua natura, all'armonia delle sue città, allo splendore delle sue arti. Era «un volto che ci somiglia», scriveva Carlo Levi in un saggio in cui lodava dell'Italia «la compresenza dei tempi», nascosta
oggi da un'invadente bruttezza. È molto difficile amare questo paese, anche se ci è impossibile non continuare a farlo, e a, vanamente, sperare nel suo risveglio. Quando Lamartine definì l'Italia una «terra di morti», insorse il Giusti con una poesia che ci facevano studiare alle elementari per darci l'orgoglio delle nostre origini. Oggi, nonostante tanti gruppi e figure notevoli, continuiamo ad amare il nostro paese perché della sua storia e cultura siamo impastati, ma anche, più assai che al tempo di Saba, continuiamo a soffrirne l'intollerabile, quotidiana, comune “atrocità”.

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