sabato 30 aprile 2011
In risposta a una mia inserzione, un bel mattino mi trovai sulla soglia dell'ufficio - si era d'estate e la porta restava aperta - un giovane immobile. Ancora adesso rivedo quella figura, così sbiadita nel suo decoro, miserabile nella sua rispettabilità, così disperata nella sua solitudine.

Ogni giorno nel fascio di posta che giunge sul mio tavolo non manca mai un curriculum: nella freddezza dello standard adottato si intuisce il fremito di un appello, non di rado esplicitato da una lettera accompagnatoria che ti fa stringere il cuore. Dietro quelle righe, infatti, c'è un giovane senza grandi speranze, un padre disoccupato, una persona in necessità. Domani celebreremo la tradizionale festa del lavoro e a me è venuto in mente Bartleby, il protagonista dell'omonima opera di Herman Melville, il romanziere americano che è nella memoria di tutti per il suo celebre Moby Dick. Quel giovane aspira a un posto di scrivano, in pratica di impiegato, ed è lì con la rassegnazione di chi sa già di dover eseguire un lavoro alienante e senza creatività.
Tacendo, copia fogli e fogli, mentre fuori pulsa la vita degli affari. Non ha amici e neppure una casa sua, non intesse dialoghi, ma respinge ogni coercizione o prevaricazione con un atono I would prefer not to, «preferirei di no». Ignorato dai colleghi e dagli stessi padroni, egli chiuderà la sua storia in modo drammatico, dopo un'esistenza grigia nell'ufficio delle «lettere smarrite» di Washington (in inglese dead letters, «lettere morte»"). Il pensiero va oggi ai tanti precari che, per sopravvivere, devono accettare condizioni di lavoro aleatorie e che non possono neppure obiettare: «Preferirei di no». Pensiamo anche agli stranieri costretti spesso a situazioni umilianti di quasi schiavitù. Oppure a chi ha messo inserzioni e inviato il curriculum e non ha uno straccio di risposta. Un po' tutti dobbiamo raccogliere l'appello silenzioso di Bartleby e dei tanti suoi colleghi, anche più sfortunati.
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