sabato 28 maggio 2011
La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve necessariamente essere infinita.

A dire queste parole non è un predicatore in vena di moralismo, ma uno dei grandi filosofi della scienza del secolo scorso, il viennese Karl Popper, nato nel 1902 e morto a Londra nel 1994. Espressioni analoghe erano state dette o scritte da scienziati del livello di Einstein, Heisenberg e Planck. L'orizzonte della nostra conoscenza, pur esaltante, quanto più s'allarga tanto più vede l'immensità dell'ignoto che gli si schiude innanzi. Questa "ignoranza" è nobile e Montaigne, il celebre pensatore del Cinqucento, nei suoi Saggi la puntualizzava così: «L'ignoranza che si conosce e giudica non è vera ignoranza. Lo è solo quando ignora se stessa». L'ignorante saccente è il vero ignorante e il suo è «un male invincibile», come lo definiva Sofocle in uno dei frammenti a lui attribuiti.
Purtroppo ai nostri giorni la superficialità è una divisa indossata con orgoglio, l'arroganza dell'insipiente è rispettata e considerata segno di decisionismo e persino di acutezza. Essa conduce non solo all'approssimazione e all'impreparazione, ma anche alla rozzezza, all'inciviltà, al cafonal, come si è soliti dire (e chi lo è non s'imbarazza certo di essere così classificato). Finisco come ho iniziato. Leggete le righe che ora cito. Non sono neanch'esse di un predicatore, né di un pessimista della ragione. È nientemeno che Voltaire il quale nella sua Vita di Federico II scriveva, fin esagerando: «Non sappiamo nulla di noi stessi e ci muoviamo, viviamo, sentiamo e pensiamo senza sapere come. Gli elementi della materia ci sono sconosciuti. Siamo ciechi che procedono e ragionano a tentoni».
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