domenica 5 agosto 2007
Una tradizione ebraica racconta di alcuni giovani che chiedono a un anziano rabbino quando sia cominciato l'esilio di Israele. «L'esilio di Israele " risponde il rabbino " cominciò il giorno in cui Israele non ha più sofferto del fatto di essere in esilio». Il vero esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c'è più nel cuore la struggente nostalgia della patria.
Quest'oggi ho lasciato voce a un mio amico, caro e stimato da molti, il vescovo e teologo Bruno Forte. Queste sue parole colgono una profonda verità, la cui semplicità la rende spesso disattesa e ignorata. L'uomo di oggi, soprattutto, ha perso il gusto delle grandi attese, degli interrogativi radicali, degli ampi orizzonti. La perdita di questa nostalgia dell'infinito da cui proviene e a cui è destinato lo rende meschino, curvo sulle piccole cose, sulle modeste mete, sulle recriminazioni davanti a ogni minimo ostacolo, pronto a dare le dimissioni di fronte a una vita che può essere una scalata.
Aveva ragione lo scrittore moralista francese secentesco La Rochefoucauld quando dichiarava: «Chi si dedica troppo alle piccole cose diventa incapace delle grandi». In molti c'è ormai l'abitudine all'esilio, stanno bene nella banalità di un'esistenza priva di fremiti e di tensione, non attendono più un "oltre", cioè una meta più alta, una destinazione che non sia solo una qualsiasi stazione di passaggio. In loro non crea più emozione la ricerca interiore e umana, il loro sguardo non si leva più " come aggiunge mons. Forte " verso «il cielo del desiderio e della speranza». Ritroviamo, allora, in noi il lievito evangelico della fiducia, la nostalgia per un orizzonte più vasto e più luminoso.
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