sabato 15 giugno 2019
Ci sono persone che per pregare chiudono gli occhi, mettono il viso tra le mani, si volgono verso il loro intimo. L'orazione si configura allora come un tuffo, un'immersione, simile all'immagine che ci offre l'haiku di Matsuo Bashô: «Silenzio/ Una rana si tuffa/ Dentro di sé». La preghiera è una pietra che sprofonda, non nel lago ma nella vasta interiorità di sé. Altri, invece, quando pregano spalancano gli occhi, li tengono ben aperti nel tentativo di guardare la vita nella sua lampante meraviglia, nel suo strappo lancinante, nel suo piacere vivo.
Hanno ragione tanto gli uni come le altre. Tutte le maniere di pregare sono insufficienti. Tutte sono efficaci. L'arte di pregare è l'arte di essere, questo soltanto. L'essenziale è che la preghiera non sia un mero dire, ma un dirsi, e un dirsi fiducioso. Anche quando ricorriamo all'orazione vocale, quel che davvero conta non è il verbo. Noi possiamo dirci in tanti modi, nel silenzio, nell'immobilità della parola, in quella frontiera rovente che è il tacere o il rimanere e niente più. Fondamentale è la comprensione che una prece, per quanto semplice e balbettata possa essere, si inscrive nel dinamismo di una relazione. C'è un io e c'è un tu. Il monaco Teoforo diceva, con senso dello humour, che per un monaco la coscienza di essere davanti a Dio dev'essere forte e reale come un mal di denti.
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