Io sono Francesco Sono Totti. E tutti noi
mercoledì 18 novembre 2020
“Io sono Francesco Totti”, per la regia di Alex Infascelli, non è un docufilm su una star del calcio e questo articolo non è un pezzo di critica cinematografica. Abbandonate ogni pregiudizio (sia sui calciatori sia sul cinema) e regalatevi due ore davanti a un esercizio di epica, senza che ci sia un personaggio epico. Quello che Infascelli e Francesco Totti, come protagonista e voce narrante, combinano sarà quello di costringervi a un viaggio, anche un po' doloroso, dentro a voi stessi. Dimenticavo: non c'entra nulla che conosciate il calcio o meno, che abbiate mai visto una partita o meno, che tifiate per la Roma o meno. D'altronde qualcuno di noi ha mai combattuto una guerra con lance e scudi per conquistare una città dell'Asia Minore? Eppure versiamo lacrime sui versi di Iliade e Odissea. Qualcuno di noi ha mai parlato con un marziano? Eppure tutti con gli occhi rossi davanti ad E.T. l'extraterrestre che voleva telefonare a casa. È la magia dell'arte, della letteratura, del teatro, del cinema, della musica. E dello sport. Aristotele la chiamava catarsi e ne sottolineava l'effetto liberatorio, capace di purificare, rasserenare, sollevare l'animo dello spettatore dalle passioni, permettendogli di ritrovarle nella manifestazione dell'arte, riviverle intensamente e, dunque, liberarsene.
Ora, se guarderete “Io sono Francesco Totti” e leggerete questo mio articolo davvero senza pregiudizi, non vi sembrerà per nulla strano trovare Aristotele e il Pupone nello stesso capoverso. Il docufilm di Infascelli, certo, parla di Totti, dei suoi sogni di ragazzino, del suo amore sconfinato per il pallone, per la Roma, per sua moglie, per la sua famiglia, per i suoi tifosi. Parla di un ragazzo che diventa, quasi suo malgrado, un eroe, capace di far piangere uno stadio intero il giorno del suo addio al calcio. Parla dei successi, delle cadute, delle scelte azzeccate, degli errori, dei suoi amici e dei suoi nemici. Parla dei momenti facili e di quelli difficili. Parla di quell'istante in cui percepiamo la fine di qualcosa di grande, riassunto con un piano sequenza sul protagonista, seduto nella solitudine assoluta del ventre dello Stadio Olimpico mentre, fuori, 73.000 persone non stanno aspettando altro che lui esca dal tunnel per l'ultima volta, con la maglia giallorossa e la fascia da capitano. Beh, quelli siamo noi. Siamo quell'uomo seduto lì da solo come se fosse chiamato, lui campione del mondo, a una cosa mille volte più grande di sé e siamo anche quei 73.000 sugli spalti, con i lacrimoni pronti. La stessa voce narrante di Francesco Totti è la voce della nostra coscienza: “Guarda quant'era giovane mamma!”, dice davanti a una foto, come se si stesse rivolgendo contemporaneamente a noi e a se stesso.
Credetemi, queste due ore parlano della storia di un calciatore che ha segnato un'epoca, ma molto di più del senso dello sport, raccontano di lui quanto di ciascuno di noi. È una specie di cerchio che si chiude, ricordando che la grandezza alla quale siamo chiamati ha sempre un prezzo, piccolo o grande, da pagare: “Ma io dico: ce sarà mai un giorno nella vita mia in cui nessuno me ferma e nun firmo manco n'autografo? Prima che moro, una volta, potrò mai uscire senza che nessuno me dice niente? Secondo me no...”.
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