sabato 30 novembre 2002
La sfrontatezza degli uomini è tale che, sebbene abbiano ricevuto molto, si sentono come offesi, perché avrebbero potuto ricevere di più: «Mi ha dato la pretura, ma io speravo il consolato"; ha voluto che l'anno si datasse col mio nome, ma non mi fa avere un sacerdozio; sono stato cooptato in un collegio, ma perché in uno solo?». Del pensatore latino, Seneca, vissuto nel I sec. e famoso per la limpidità tagliente dei suoi detti morali, qualche mese fa il prof. Giovanni Reale ha pubblicato un Breviario di testi (Bompiani), al quale ho attinto questa considerazione sull'incontentabilità umana. C'è, infatti, per alcuni una sorta di morso della tarantola per cui far carriera è lo scopo primario di ogni pensiero, azione e scelta. Non si danno pace finché non hanno raggiunto quel gradino di potere o di prestigio; ma, quando si sono là insediati, ecco che comincia la gara tormentosa per la posizione più elevata. Ma, al di là di questo morbo dell'anima che infetta politici e burocrati, funzionari e semplici dipendenti, laici ed ecclesiastici, c'è un altro aspetto dell'incontentabilità che tocca un po' tutti ed è quella dell'insoddisfazione per il proprio stato. È una specie di agitazione che non permette di compiere bene il proprio lavoro, di cogliere le gioie quotidiane, di sopportare i piccoli contrattempi. Per questa strada si va fino alla perdita della pace dell'anima. Significativo, allora, è il monito di Cristo: «Non affannatevi per il domani" A ciascun giorno basta la sua pena» (Matteo 6,34).
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