mercoledì 29 aprile 2015
Con mio figlio di II elementare sta cominciando un nuovo calvario con i compiti a casa. Partito entusiasta della scuola e perfino dei compiti a casa, ora stanno diventando un ostacolo insormontabile; il problema non è farli, ma mettere in atto la volontà e iniziarli a fare con cura. Non è mai l'ora, non c'è mai la voglia, men che meno il senso del dovere. Le pochissime volte in cui ciò è successo ho cercato di fargli notare la soddisfazione e il risparmio di tempo che ne derivava. Ma non basta. Si riparte ogni pomeriggio con parole gentili che invitano alla convenienza dell'impegno e all'interesse, per arrivare a ricatti, minacce, castighi, esasperazioni e arrabbiature. C'è una "ricetta", una "cura" della volontà? Cosa mette in moto la responsabilità?Elisabetta BirondiI compiti sono spesso il tormentone delle giornate di molte famiglie. Il tempo speso a parlarne a volte è superiore a quello effettivamente impiegato per svolgerli. Fai i compiti diviene un mantra pronunciato subito dopo l'arrivo a casa dei figli, e ripetuto fino a sera. Tra l'altro, tanto più si accendono i riflettori sui compiti, tanto più rischiano di diventare un problema. Come uscirne, allora? Iniziamo con il dire che i compiti non sono affare nostro. Di noi genitori, intendo. Sono consapevole che può sorgere una certa resistenza di fronte a questa affermazione. Eppure, spesso, sta proprio qui la radice della difficoltà. I compiti sono essenzialmente una questione fra l'alunno e il suo insegnante. Portare a scuola il materiale corretto, svolgere i compiti assegnati, approfondire i concetti spiegati in classe sono innanzitutto modi per rispondere a un appuntamento, non imperativi moralistici o comandi astratti fine a loro stessi. Si tratta di richieste che arrivano dall'insegnante, cui si è tenuti a rispondere. Quest'ordine di cose contempla inoltre la sanzione, che nella sua natura premiale (il bel voto) o penale (la nota o l'insufficienza) conclude il moto e lega il lavoro al risultato. La questione dei compiti è davvero tutta inscritta dentro il rapporto discente-docente. Per questo è con la maestra che il bambino ha a che fare al riguardo, non innanzitutto con mamma e papà. Dentro il rapporto con lei impara a regolarsi, mosso dal desiderio di ottenere soddisfazione. Mamma e papà, semmai, facilitano e incoraggiano.Uno dei rischi che possiamo correre come genitori è proprio caricare i compiti di significati che non hanno, ossia trasformarli in una dimostrazione, d'amore o di capacità. Un bambino non studia per far contenti mamma e papà, né per non deluderli, e nemmeno per dimostrare di avere i numeri giusti, studia perché glielo chiede un altro e sperimenta in prima persona che assecondandone la richiesta riesce a produrre qualcosa di più, che prima non esisteva. Può essere interesse, conoscenza, curiosità, gusto. Apprendere è sinonimo di prendere, far diventare proprio, è l'iniziativa del soggetto mossa dall'idea di potere farsene qualcosa di ciò che viene proposto.Non c'è nessun motivo per cui un bambino, di là dalla sua ragionevole voglia di giocare che lo porta un po' a posticipare l'inizio, abbia opposizione ai compiti. E infatti di solito parte bene, con entusiasmo. Sta a noi capire che cosa a un certo punto interviene a frenarlo. È certo un peccato che il rapporto con lui si comprometta per la scuola. Se temiamo che possa accadere, forse conviene fare un passo indietro, uscire dagli automatismi che si sono creati e magari cercare un terzo che temporaneamente sostenga il lavoro e se ne occupi. Sarà l'occasione di liberare il campo per forme più costruttive e piacevoli di rapporto che indirettamente aiuteranno anche la scuola. C'è tanto di più interessante da fare con i figli, e anche noi da soli, che rovinarsi la vita per i compiti.Inviate i vostri contributi a: giovanistorie@avvenire.it
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