giovedì 2 febbraio 2023
Stavi per compiere quattordici anni, era maggio, e sull’ultimo tema di terza media c’era un “9” in rosso, firmato dalla professoressa. Ce l’ho ancora quel tema, la carta del foglio a righe è ingiallita ma la tua calligrafia larga, vergata con inchiostro blu, è uguale. Raccontavi nel tema di un sogno appena fatto, in una notte di quella calda primavera. Auto con altoparlanti issati sul tetto percorrevano freneticamente Milano, annunciando alla popolazione che una catastrofe cosmica, un gigantesco meteorite stava per colpirci, e dunque bisognava, tutti, subito, fuggire. Già nelle periferie, appena oltre le ultime case, rombavano i motori di giganteschi missili che ci avrebbero portato in salvo. Ma bisognava affrettarsi e correre a imbarcarsi, con poco o nessun bagaglio. Una borsa, al massimo, nient’altro. Tu dunque, Lucetta, nel sogno correvi a casa, non trovavi nessuno, noi evidentemente già fuggiti. Senza fiato afferravi le foto di famiglia, un libro caro, un peluche di quando eri piccola e quindi straziata, ma senza voltarti, te ne uscivi di corsa: in mezzo a tanti altri, una folla sgomenta sotto a un cielo di tempesta. Ma, quasi arrivata ai missili, ti bloccavi: avevi dimenticato qualcosa di essenziale, forse un tuo piccolo gioiello, o forse quel canarino giallo nella gabbietta, che la tua sorella piccola, Marina, amava tanto. Non potevi assolutamente abbandonare quella cosa cara, e allora a ritroso facevi la strada, inciampando nei passi della folla che cercava di mettersi in salvo. Correvi a perdifiato, il cuore in gola: eccoti a casa, le scale, la tua stanza, afferravi quel qualcosa a te così caro e via, senza più fiato, di nuovo, nelle strade di Milano ormai deserte. Porta Nuova, la Stazione Centrale, il grattacielo Pirelli, nessuno. All’orizzonte verso nord decine di missili allineati emettevano bagliori rossastri, i motori giravano in un cupo fragore, le guardie richiamavano gli ultimi ritardatari: “Presto! Non c’è più tempo! Abbiamo pochissimi minuti!” Poi con un tuono il primo missile si levava nell’atmosfera, sputando lingue di fuoco dai reattori. E già un secondo rombava, pronto a partire. Le ultime guardie, mettendosi in salvo, avevano bloccato gli accessi alle rampe di lancio. Pochi erano rimasti fuori, attoniti, impotenti. Non ce l’avevano fatta. Avevano i capelli bianchi. Tranne te, con la tua lunga treccia nera e quel pacchetto così importante in mano. Tu rimasta a terra, sotto a quel cielo livido. Un incubo, semplicemente. Accade di farne, magari dopo aver visto quei film un cui un’apocalisse minaccia la Terra. Ma correva l’anno 1966, e di quei film ancora non se ne vedevano molti. Perché questo incubo allora, tu fanciulla ormai, bella, un’adolescente in fiore? Cosa sapevi, cosa sentivi addosso tu, che saresti stata sepolta sotto la neve di marzo? Tutti salvi, tranne te, che eri tornata indietro per qualcosa che non potevi abbandonare. Quel tema scritto con calligrafia tonda, bambina, e il voto, “9”, in rosso, è ancora qui, in un cassetto. Lo rileggo, cerco di farmi una ragione, domando, dopo tanti anni, dove sei. E: perché mi hai lasciata sola. Mi si para davanti l’estenuante ostinato silenzio della morte. Non capisco, davvero non capisco. Stento a chinare il capo – la tua morte, lo scandalo che non ho accettato mai – di fronte al mistero che tu sei stata. La sorella che mi aveva sorretto nei primi passi, che mi aveva insegnato a scrivere. Portata via prima di cominciare vivere. Come scelta, e chiamata. E io qui, che invecchio. E ancora certe sere, prima di dormire, ti cerco. © riproduzione riservata
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