martedì 26 aprile 2005
Gli iconoclasti e quelli che hanno in disprezzo le processioni, le immagini e le statue e tutto l"apparato esterno del culto sono assurdi rigoristi che ignorano l"effetto prodotto nel popolo dalle cerimonie. Non hanno mai visto l"adorazione della croce il Venerdì santo, né l"entusiasmo della folla il giorno del Corpus Domini, un entusiasmo che coinvolge anche me" Vi è in tutto ciò un non so che di grande, di misterioso, di solenne.
Così scriveva nel 1765 Denis Diderot, una delle figure emblematiche dell"Illuminismo, direttore della celebre Encyclopédie e critico nei confronti della religione. Mi viene in mente questa sua riflessione sul rito e sui simboli all"indomani delle tradizionali manifestazioni della festa della Liberazione, coi vari cortei, coi discorsi, con le musiche e gli omaggi floreali ai caduti. Ora, la liturgia cristiana che ha secoli alle spalle è indubbiamente più «grande, misteriosa e solenne», come dice Diderot, e ci permette una duplice (e antitetica) considerazione.  Da un lato, è facile e giusto schierarsi dalla parte di tutti coloro - e molti vescovi e sacerdoti lo fanno con coraggio - che vogliono purificare riti e costumi religiosi popolari da detriti pagani, da sprechi colossali, da un sacralismo fine a se stesso. Sappiamo quanto severi fossero al riguardo i profeti: «Io detesto, respingo le vostre feste - dice il Signore -; lontano da me il frastuono dei tuoi canti, il suono delle tue arpe non posso sentirlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (Amos 5, 21-24). D"altro lato, però, il rito e il simbolo sono segni viventi di una cultura, parole immediate di una spiritualità sincera, espressione di identità e manifestazione dell"incarnazione del cristianesimo nella vita e nella storia.
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