venerdì 12 settembre 2003
Questo è il vantaggio del pessimismo: un pessimista va incontro solo a sorprese piacevoli, mentre un ottimista ne ha soltanto di spiacevoli. Chi ama i gialli ha sicuramente letto La traccia del serpente, uno dei primi romanzi (1934) dello scrittore americano Rex Stout (1886-1975). A fare questa divertente considerazione sul pessimista è proprio il celebre protagonista, l'investigatore Nero Wolfe, che quelli della mia età ricordano nella magistrale interpretazione televisiva (1969-71) dell'attore Tino Buazzelli. Effettivamente un pizzico di pessimismo o, almeno, di realismo ci permette di navigare meglio nella vita e di superare le frequenti tempeste imbattendoci con sorpresa gioiosa negli squarci di sereno. Tuttavia, il pessimismo radicale e metafisico - tanto per intenderci, alla Leopardi, per il quale «è funesto a chi nasce il dì natale» - conduce su un terreno scivoloso il cui fondo può essere l'inerzia indifferente o la disperazione. C'è, però, anche un pessimismo cristiano che nasce dalla «descrizione del mondo decaduto e che viene continuamente superato e vinto da un ottimismo della fede», come annotava Gianfranco Morra nel suo Breviario del pessimista (ed. Rubbettino). Esso sboccia dalla consapevolezza di essere immersi in una storia segnata dal peccato, di avere un cuore attratto dal male, di vivere in una società marchiata dall'ingiustizia. Eppure tutto questo è accompagnato dalla certezza di una presenza salvatrice, quella di Cristo, che è giunto in quel groviglio per districarlo. E' questo il pessimismo cristiano, un pessimismo il cui antidoto non è un generico e fin vano ottimismo, ma la speranza e la certezza di non
essere abbandonati a noi stessi e alle nostre macchinazioni.
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