martedì 21 marzo 2006
Il popolo degli uccelli è vasto, e tra di essi ce ne sono di maestosi. Il passero non appartiene certo all'assemblea dei «grandi»: pesa un nonnulla, il suo piumaggio è scialbo, il suo cinguettio discreto. Le aquile abbondano sulle bandiere dei paesi conquistatori. Il passero, invece, non incute soggezione, è buffo e grazioso, forse un tantino insolente. Il suo corpo minuscolo esulta di leggerezza e di semplicità, è una strofa viva uscita dal poema del Creato e che modula gioiosamente l'aria della libertà. Anche sul mio terrazzo, che già vive la primavera, i passeri si sono affacciati, impauriti solo dai più prepotenti merli. È una gioia vedere questo uccello, rivestito come un frate francescano (non per nulla in francese è chiamato moineau, da moine, «monaco»), becchettare libero, bagnarsi nelle piccole pozze d'acqua, esprimere la sua felicità di essere in vita, libero, senza preoccuparsi del domani. Penso così alle dolci e intense parole che gli ha dedicato la scrittrice francese Silvie Germain nel suo libretto Portare il peso del tempo (Città Aperta - Servitium), che ho appena finito di leggere. Questo uccello aveva attirato anche l'attenzione di Gesù (si legga Matteo 10, 29-31) che ricordava come i passeri e gli altri volatili semplici e modesti «non seminano, non mietono né ammassano nei granai, eppure il Padre celeste li nutre» (6, 26). A noi sempre incupiti, preoccupati nel guadagno, tesi al successo, desiderosi di predominio, essi insegnano la serenità, il distacco, la gioia di vivere, l'armonia col mondo. Realtà queste, di cui non conosciamo più il sapore, immersi come siamo in cose sofisticate, in possessi pesanti, in piaceri spossanti. «Il passero " conclude la Germain " ci offre un'immensa lezione: come trasfigurare la povertà in festa, la vulnerabilità in grazia».
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