Il giornalismo peggiora perché ha perso il senso del suo scopo sociale
venerdì 28 aprile 2017
Ricordo che quando negli anni Ottanta mi capitava di criticare il giornalismo magari citando Balzac o Leopardi o Kierkegaard o Kraus (per darmi importanza, per farmi coraggio) venivo prontamente zittito come antimoderno, supponente o apocalittico. Oggi vedo che la cosa comincia a sembrare, come dovrebbe, un po' più ovvia e anche doverosa. Se l'autocritica professionale deve restare un punto d'onore di ogni professionista, perché acuisce la coscienza dei propri errori e doveri, è bene che medici, insegnanti, architetti e perfino pubblicitari o comunicatori d'ogni tipo, prendano periodicamente le misure della propria funzione pubblica.
Walter Benjamin, in un saggio che ebbe una certa fortuna nel Sessantotto, intitolato L'autore come produttore, parlò della trasformazione delle forme e degli strumenti di produzione culturale, a cui avrebbero dovuto partecipare gli intellettuali di sinistra: e citava un'idea di Brecht, secondo cui «l'intellettuale non deve rifornire l'apparato produttivo senza nello stesso tempo trasformarlo, nella misura del possibile, in senso socialista». Progetto ambizioso. Eppure dimenticarlo sarebbe un brutto segno e un danno per la cultura.
È vero che il significato della parola "socialismo" nel frattempo è diventato equivoco o sfuggente. Il termine "social" si è intanto trasformato nei fatti in sinonimo di "antisocial", cioè di esibizionismo pseudocomunicativo, assenza di socialità effettiva e responsabile. Quel saggio di Benjamin ha perciò perso molta attualità. Resta l'idea che la produzione intellettuale dovrebbe non solo confermare, ma anche modificare "in meglio" gli strumenti che usa, non cessando di ridefinirne le finalità e le forme.
Si è parlato di peggioramento della comunicazione giornalistica la settimana scorsa sia sull'Espresso (con un articolo del filosofo Pier Aldo Rovatti e un'intervista a Gad Lerner) sia sul Corriere della sera (in una pagina in memoria di Piero Ottone, direttore innovativo negli anni Settanta). L'Espresso insisteva sul dominio dello stile "monologante" che imperversa nei dibattiti televisivi. I talkshow sono più "show" che "talk": viene spettacolarizzato l'atto di parlare, magari urlando, a danno del contenuto di quel parlare. Si parla e non si ascolta. Lerner, che un quarto di secolo fa fu protagonista di quel genere di giornalismo televisivo, oggi è pessimista: tutti ormai conoscono i trucchi «della prevaricazione discorsiva» e perciò bisognerebbe trovare «formule completamente diverse». Quanto al Corriere di Ottone, è tuttora ricordato perché cessò di essere un giornale conservatore, cominciò a pubblicare in prima pagina gli "scritti corsari" di Pasolini e invitò a collaborare Calvino, Natalia Ginzburg e Goffredo Parise.
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