martedì 3 novembre 2020
È davvero strano che in mezzo alla valanga di saperi che andiamo accumulando per tutta una vita non figuri il seguente: imparare a morire. La contemporaneità ha fatto della morte il proprio tabù, il più temuto e il più occultato, lasciandoci impreparati ad affrontare la naturalezza con cui la vita la abbraccia. La morte irrompe come un'interruzione, come un dolore da vivere di nascosto. Della morte l'uomo contemporaneo non sa che cosa pensare. Eppure la morte è un'espressione della vita. Certamente la più enigmatica e impenetrabile. Ma è dall'interno della vita che dobbiamo comprenderla. E cogliendo il seguente: la morte, mentre ci pone drammaticamente davanti a quel mistero che siamo noi, in certo senso riscatta l'esistenza stessa. Perché noi possiamo vivere una vita intera senza mai pensare a ciò che essa è: la vita ci appare come un dato ovvio, svuotato di ogni interrogativo. E non è così. La vita non è solo questo traffico di verbi, questa marcia forzata e sonnambula, questo procedere tra dovere e avere, questa contabilità priva di ogni metafisica. La vita non è solo questo. E la morte la amplifica. Vale la pena di pregare con i versi di Rainer Maria Rilke: «O Signore, concedi a ciascuno la sua morte: / frutto di quella vita / in cui trovò amore, senso e pena. / Noi siamo solo la buccia e la foglia. / La grande morte che ognuno ha in sé / è il frutto attorno a cui ruota ogni cosa».
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